Non serviva l’assassinio del presidente della Repubblica Jovenel Moïse per gettare Haiti nel caos. L’episodio ha solo complicato la situazione in uno dei Paesi più difficili al mondo, il più povero dell’intero emisfero settentrionale. Uno Stato che, dopo essersi liberato dai colonizzatori francesi nel 1804 (seconda nazione americana a rendersi indipendente dai coloni europei dopo gli Stati Uniti), è col tempo finito in una spirale di dittature, colpi di Stato, violenza, miseria e disastri ambientali. Il Pil pro capite, nella parte occidentale dell’isola Hispaniola (quella orientale è occupata dalla Repubblica Dominicana), è di 759 dollari, il 162 esimo al mondo. L’80 per cento della popolazione (in totale, 10 milioni di abitanti) vive in condizioni di povertà estrema, mentre il 54 per cento degli haitiani tira avanti con meno di un dollaro al giorno: peggio del Paese latinoamericano, solo il Ciad in Africa centrale.
In uno scenario simile l’instabilità politica è la normalità. E se a ciò si aggiunge che tra il 2004 e il 2016 Haiti è stata colpita da due uragani, uno dei terremoti più distruttivi della storia e da un’epidemia di colera portata dai caschi blu dell’Onu, diventa facile immaginare perché il Paese viva perennemente sul ciglio del baratro. Ad agitare le strade, poi, ci sono le gang e le formazioni paramilitari che, negli ultimi anni, hanno fatto dei sequestri di persona il loro core business: solo nel 2020, secondo la Ong Center for Human Rights Analysis and Research di Port-au-Prince i rapimenti sono stati 796, tre volte di più rispetto all’anno precedente.
Haiti e il vuoto politico
In un Paese che dal 1913 al 1934 ha subito l’occupazione statunitense, e che dal 1957 al 1986 ha vissuto la dittatura di François e Jean-Claude Duvalier (padre e figlio, soprannominati Papa Doc e Baby Doc), l’instabilità politica è la norma, ma non per questo meno drammatica. Dopo la caduta di Duvalier nel 1987 fu approvata la Costituzione che istituì la repubblica presidenziale. Le prime elezioni libere del 1990 videro la vittoria di Jean-Bertrand Aristide, che dopo un solo anno fu deposto da un colpo di Stato dell’esercito. Sotto pressione internazionale, Aristide fece ritorno ad Haiti nel 1994, aiutato anche da un intervento militare degli Usa – su mandato delle Nazioni Unite – che gli consentì di governare fino al 1996, e di tornare in carica dal 2000 al 2004. Proprio alla fine di quest’ultimo mandato il Paese fu scosso da una nuova insurrezione popolare, guidata da Convergencia Democratica (partito di opposizione) e riportata nei ranghi grazie a una nuova missione dell’Onu – terminata solo nel 2017 – e alla mediazione di Usa e Francia.
Jovenel Moïse, tra corruzione e repressione degli oppositori
E arriviamo allo scorso febbraio, quando il Paese è stato teatro di una nuova ondata di proteste contro Jovenel Moïse, presidente della Repubblica dal 2017. Eletto nel 2015 col partito di centrodestra Tet Kale, le elezioni vennero annullate per brogli, e Haiti era tornata alle urne nel novembre 2016, sancendo, appunto, la vittoria di Moïse. Il suo mandato si è caratterizzato per la repressione degli oppositori, la rimozione di alcuni giudici della Cassazione e per uno scandalo legato alla corruzione. Il presidente, insieme con ministri e funzionari, era stato accusato di aver gestito illecitamente dei fondi fino a 2 miliardi di dollari.
Per questo, lo scorso febbraio gli haitiani erano scesi nuovamente in piazza per chiedere le dimissioni di Moïse. Il presidente però è rimasto ben incollato alla poltrona aggrappandosi a cavilli legislativi e a una interpretazione personale della Costituzione che gli avrebbe permesso di proseguire il mandato fino al 2022.
Le Premier Ministre par intérim, Dr Claude Joseph, est investi dans ses fonctions, ce 14 avril, lors d’un Conseil des ministres tenu au palais national. Toutes les ressources du pays sont mobilisées en vue d’adresser, en toute urgence, le phénomène de l’insécurité. pic.twitter.com/xdqRmVWjB1
— Président Jovenel Moïse (@moisejovenel) April 14, 2021
Il suo mandato è stato caratterizzato inoltre dal sostanziale annullamento del parlamento – con le elezioni legislative continuamente rimandate – e dall’uso indiscriminato di decreti presidenziali. Moïse aveva anche formato una commissione elettorale per varare una nuova Costituzione e ridurre ulteriormente i poteri del primo ministro. Dopo il suo omicidio (per il quale la polizia ha già arrestato due persone, uccidendone quattro) la carica è stata temporaneamente presa da Claude Joseph, ex ministro degli Esteri. Ma quello che succederà è un rebus che nessuno, al momento, è in grado di risolvere.
Haiti e i disastri naturali
Il XXI secolo, per Haiti, è sinonimo anche di disastri naturali continui. Il primo è del settembre 2004, quando l’uragano Jeanne causò almeno 3000 morti, 2600 feriti e 80 mila persone rimaste senza casa, soprattutto nella città di Goncalves. Pochi mesi prima, un altro tifone abbattutosi su Hispaniola causò 3000 vittime tra Haiti e Repubblica Dominicana. Il peggio, però, sarebbe arrivato nel 2010. Il 12 gennaio di quell’anno, poco prima delle 17, un terremoto di magnitudo 7.0, con epicentro a 25 chilometri da Port-au-Prince, causò ufficialmente oltre 222 mila vittime. Furono più di 3 milioni, in totale, le persone colpite dal sisma. Tutti gli ospedali della capitale furono distrutti, o danneggiati in maniera talmente grave da dover essere evacuati; in macerie anche il palazzo in cui aveva sede la missione delle Nazioni Unite, i principali edifici governativi e la torre di controllo dell’aeroporto. Nonostante gli aiuti della comunità internazionale, Haiti non si è mai ripresa da quello choc, e gli effetti terrificanti del terremoto continuano a colpire, indirettamente, una comunità in ginocchio. In tempi recenti, solo il terremoto-tsunami indonesiano del 2004 ha causato più vittime.
Ma non solo: a ottobre 2016, il passaggio dell’uragano Matthew causò 603 vittime nel continente americano, di cui 546 solamente ad Haiti. Nel Paese quasi un milione e mezzo di persone finirono in stato di necessità, e 175 mila persero la casa. I feriti furono 439, i dispersi 128: secondo il governo, il tifone causò danni per 1,9 miliardi di dollari.
Haiti e l’epidemia di colera portata dai caschi blu
Nell’ottobre 2010, pochi mesi dopo il terremoto, nel Paese scoppiò una violentissima epidemia di colera che uccise 10 mila persone. Era da praticamente un secolo che ad Haiti non si verificava un’esplosione della malattia così grave, con circa 800 mila persone contagiate. Ed era da 50 anni che non venivano rintracciati casi di colera. In molti, vista la situazione disastrosa degli ospedali, non riuscirono nemmeno a ricevere le cure. A causare l’epidemia, però, non furono le scarse condizioni igieniche del Paese, ma l’arrivo dal Nepal di 454 caschi blu dell’Onu nel paesino di Mirebalais, nelle cui vicinanze scorre il fiume Meille. Gli scarichi dell’accampamento delle Nazioni Unite fluivano proprio nel corso d’acqua, usato dall’intera comunità. Il primo caso di colera si verificò a ottobre. Senza sapere cosa fosse successo, nel villaggio si continuò a usare l’acqua del fiume.
Anche il Nepal, all’epoca, era alle prese con un’epidemia di colera e quando venne scoperta la correlazione tra i Paesi, i parenti delle vittime haitiane iniziarono a chiedere giustizia e risarcimenti. Le Nazioni Unite hanno sempre risposto picche, e i ricorsi presentati sono sempre stati respinti. Almeno fino al 2016, quando il segretario uscente Ban Ki-Moon ammise che l’Onu «non aveva fatto abbastanza riguardo al colera e alla sua diffusione ad Haiti». «Siamo profondamente dispiaciuti del nostro ruolo», aggiunse. Lo stesso anno fu pubblicato un rapporto – uscito sul New York Times – in cui venivano delineate con precisione le responsabilità dell’organizzazione nell’epidemia che «non sarebbe scoppiata se non fossero intervenute le Nazioni Unite». L’Onu non ha riconosciuto risarcimenti, ma ha messo in piedi un pacchetto di aiuti umanitari per provare a superare l’epidemia. Troppo poco.