Guerre senza audience

Nicolò Delvecchio
24/07/2021

Dal Donbass al Sahara Occidentale, dal Myanmar al Tigray, regione dell'Etiopia. Aggiornamento dai fronti dimenticati.

Guerre senza audience

Il ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan dopo 20 anni di combattimenti ha nuovamente gettato luce su una zona di guerra di cui, negli ultimi anni, si è parlato sempre meno. Eppure, il conflitto non è mai finito e anzi, con l’abbandono della coalizione guidata dagli Stati Uniti, sulla scena sono prepotentemente tornati i talebani. Che, passo dopo passo, hanno conquistato sempre più città sottraendole al debole controllo dello Stato afghano, prossimo a cadere secondo molti analisti. Ma non serve andare così lontano per trovare guerre di cui non parliamo più: alcune, infatti, sono molto vicine. Ecco quali.

La guerra russo-ucraina per il Donbass

Alle porte dell’Unione europea c’è una guerra che va avanti da sette anni. È quella che si combatte nella regione ucraina del Donbass tra l’esercito regolare di Kiev e i separatisti filo-russe che ne controllano una grande parte. Il tutto va avanti del 2014 quando, dopo l’annessione della Crimea (allora Ucraina) da parte di Mosca, anche il Donbass manifestò la volontà di passare sotto la sovranità della Russia. Da allora si combatte una guerra violentissima che ha causato oltre 13 mila morti da entrambe le parti. E gli accordi di Minsk che avrebbero dovuto portare la pace, firmati nel 2015, non hanno mai trovato attuazione. A marzo la Russia ha trasferito arsenale militare e truppe a ridosso del confine orientale con l’Ucraina, mentre due mesi dopo il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha fatto arrestare Victor Medvedchuk, amico intimo di Putin alla guida della fazione filo-russa del Donbass. E ancora, il 9 luglio un soldato dell’esercito ucraino è stato ucciso e un commilitone è rimasto ferito nel corso di un violento scontro armato, mentre il 16 luglio i separatisti hanno avviato un’inchiesta sull’esercito ucraino per l’esplosione di un gasdotto nella regione.

Il Sahara Occidentale e il Marocco

Da una parte il Marocco, dall’altra il Fronte Polisario che si batte per l’indipendenza del popolo saharawi e del Sahara Occidentale. A novembre 2020, dopo quasi 30 anni di tregua, sono ripresi gli scontri tra i due schieramenti a Guerguerat, nella zona meridionale della regione a ridosso della Mauritania. Si è ricominciato a combattere anche lungo il muro di oltre 2 mila chilometri che divide la maggior parte del Sahara Occidentale, sotto il controllo di Rabat, e quella controllata dal Fronte. Guerguerat è uno snodo strategico perché da lì passa l’unica strada – a cui manca ancora un breve tratto – che porta in Mauritania, e Rabat vorrebbe completarla per unire i due Paesi. Gli scontri vanno avanti da mesi: a gennaio il Fronte Polisario ha bombardato Guerguerat, a marzo ha attaccato alcune postazioni strategiche dell’esercito marocchino poste lungo il muro. Ad aprile, invece, il Marocco ha ucciso con dei droni il capo della gendarmeria del Fronte. E così via, con quotidiani attacchi e contro-attacchi tra le parti che riportano ai 16 anni di battaglie tra il 1975 e il 1991. Proprio nel 1991 fu concordato con le Nazioni Unite un referendum per stabilire la natura del Sahara Occidentale, ma la consultazione non si è mai tenuta. I rapporti tra Marocco e Fronte Polisario sono anche finiti nell’inchiesta Pegasus Project e a maggio hanno causato la crisi di migranti con la Spagna a Ceuta e Melilla.

Myanmar, un Paese senza pace

Un altro fronte caldo è il Myanmar. A cinque mesi dal colpo di Stato che il primo febbraio 2021 ha rovesciato il governo di  Aung San Suu Kyi, e dopo le proteste represse nel sangue – il bilancio parla di oltre 850 morti e 6 mila persone arrestate – gli oppositori hanno deciso di abbandonare le piazze e imbracciare le armi. Anche chi non aveva mai preso una pistola in mano prima d’ora, come riporta un lungo articolo del The Economist, ha deciso di combattere e rischiare la pelle per cambiare le cose. La resistenza procede con omicidi mirati dei funzionari dell’esecutivo militare e con attentati negli uffici del governo. Nelle campagne, poi, sono stati creati dei centri per addestrare i militanti, come testimoniato da un bel documentario della Cnn. Già prima del golpe, nel Paese vi erano milizie costituite su base etnica che ora hanno cominciato ad attaccare l’esercito. Tra queste, l’Esercito per l’indipendenza kachin (Kia) e l’Esercito di liberazione nazionale karen (Knla). Da marzo hanno iniziato a prendere d’assalto i commissariati. Ma scontri violentissimi con l’esercito birmano si sono verificati anche al confine con la Cina, e ad aprile un intero battaglione è stato spazzato via in appena due giorni. Solo nel 2015, dopo oltre 60 anni di dittatura dell’esercito, nel Paese si erano tenute le prime elezioni libere che avevano sancito la vittoria di Aung San Suu Kiy, a lungo in carcere e Nobel per la Pace nel 1991. A febbraio San Suu Kiy è stata arrestata ed è adesso ai domiciliari. Intanto il Myanmar bolle.

Tigray, i dolori dell’Etiopia 

Nel Tigray, regione dell’Etiopia del nord al confine con l’Eritrea, va avanti da mesi un conflitto drammatico tra l’esercito di Addis Abeba e il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Fplt), formazione di ispirazione marxista che rappresenta l’etnia tigrina. Ad accendere la miccia, a novembre, la convocazione dell’elezioni regionali da parte del Fplt, considerate illegittime dal governo di Abiy Ahmed, e l’assalto a una caserma dell’esercito da parte dei miliziani del Fronte. Il 22 luglio il Fplt ha preso il controllo della regione di Afar, costringendo quasi 55 mila persone ad abbandonare le proprie case, segnando la seconda importante vittoria nel giro di due mesi: a giugno, infatti, i miliziani avevano riconquistato Macallè, la capitale del Tigray. I dati di questa guerra sono spaventosi: due milioni i tigrini sfollati, in centinaia di migliaia si sono invece rifugiati in Sudan. L’esercito di Addis Abeba, supportato anche da quello eritreo, è stato accusato di stupri, violenze e omicidi a danni dei civili, mentre il governo ha ridotto alla fame quasi due milioni di persone, isolando il Tigray da qualsiasi tipo di rifornimento, sia di cibo che di energie.