«Te la senti di partire domani per Sofia?», mi ha chiesto ieri mattina il direttore della radio mentre, seduto alla mia scrivania, stavo scegliendo i dischi da mettere in play per la trasmissione di sabato. «Posso risponderti dopo?», gli ho detto scostando leggermente la cuffia che avevo in testa, «al momento sono moto preso da una sessione di jazz giappo che mi sta letteralmente mandando fuori». «Non hai molto tempo per decidere. Vorremmo fare un servizio sulla crisi ucraina vista dalla Bulgaria e sei l’unico bulgaro che ho in redazione», ha aggiunto con un sorriso sardonico.
Così adesso sono qui, con la mia borsa camouflage con sopra scritto in rosso la parola SPACE, preparata in fretta e furia, su un freccia rossa diretto verso Roma, dove dovrò incontrare un interprete con il quale mi imbarcherò, domani mattina stessa, da Fiumicino per Sofia, perché non parlo una parola di bulgaro. Sul comodino avevo due libri: Stalingrado di Vasilij Grossman e Romanzo russo di Emmanuel Carrère. Il primo è stato accolto da tutta la critica mondiale come un capolavoro ritrovato. Appena pubblicato in Italia da Adelphi è il primo leggendario tomo di Vita e destino, e per molti è una sorta di Guerra e pace del Novecento, all’interno del quale Vasilij Grossman, attraverso la narrazione delle vite di una famiglia stalingradese, illustra e spiega gli eventi centrali della Seconda Guerra mondiale, concentrandosi sulla guerriglia che pose di fatto fine al nazismo e diede il via alla cavalcata dei carri armati russi che attraverso l’Ucraina arrivarono fino a Berlino. Io però ho scelto di portare con me il libro di Carrère, un po’ perché ho letto di recente un suo pezzo su Rep da Mosca, dove indagava le reazioni dei dissidenti alla guerra dall’interno e un po’ perché in questo romanzo lo scrittore francese compie un viaggio introspettivo alla ricerca delle proprie origini che lo costringe a tirare fuori dall’armadio uno scheletro ancora pericoloso e portatore di sofferenza riguardante la storia della propria famiglia.
Restavamo quindi io e papà a trascorrere insieme il weekend, e per la prima volta mi sentivo protagonista di un’esperienza soltanto nostra che, ahimè, rimase storicamente unica e non si ripetè mai più
Penso a tutto questo mentre il panorama scorre fuori dal finestrino e guardo distrattamente sull’iPad la semifinale di Coppa Italia tra Juventus e Fiorentina, partita che mi riporta inevitabilmente alla mente ricordi passati e una particolare serata, trascorsa con mio padre anni prima, che custodisco, chissà perché, come uno dei ricordi più belli e preziosi che ho con lui. 16 maggio 1990, in una suite del Principe di Savoia di Milano stiamo guardando la finale di ritorno di Coppa Uefa tra Juventus e Fiorentina, partita che passerà alla storia come l’ultima gara di Roberto Baggio con la maglia viola. Il principesco appartamento di Via Amedeo d’Aosta era stato appena venduto, io abitavo già a casa di mia nonna a Palazzo Fidia, frequentavo la quarta elementare alla Leonardo da Vinci e papà era venuto a prendermi per cenare da lui in albergo. Ricordo che ero al settimo cielo, perché Valentina, (la sua compagna che vivevo all’epoca al pari di una gerarca nazista), era già andata a Curno a sovrintendere i lavori della nuova casa e mio fratello era appena partito per l’Isola d’Elba, con una delle sue fidanzate dell’epoca. Restavamo quindi io e papà a trascorrere insieme il weekend, e per la prima volta mi sentivo protagonista di un’esperienza soltanto nostra che, ahimè, rimase storicamente unica e non si ripetè mai più. A volte penso che sia quello il motivo per il quale ancora oggi amo fare colazione negli hotel, con i mega buffet, le uova alla Benedict, le spremute d’arancia e compagnia bella. Perché mi ricordano quel weekend con mio padre, la finale di Coppa Uefa e più in generale la mia infanzia, che fino a quel momento ricordo come abbastanza vicina a quella che potrei definire una perfezione cristallina. «Devi chiudere i conti con il tuo passato per poter girare pagina, Andrea», mi ha detto il mio psycho, l’ultima volta che ci siamo visti nel suo studio in Via del Torchio, in una seduta fiume durata circa un’ora e mezza. E probabilmente, dato che gli do sempre retta, è per questo che ho accettato di partire per Sofia, perché anch’io, come Carrère, «ero felice di quella sofferenza che apparteneva soltanto a me e faceva di me uno scrittore». Oggi, come lui, anch’io «non voglio più saperne», anche se io non sono affatto uno scrittore ma piuttosto un disc-jockey, come tra l’altro sta scritto sulla mia carta d’identità.

In ogni caso manco da Sofia da circa sei anni, e a dire il vero non è che abbia mai avuto questo grande rapporto con la Bulgaria anche se, una volta, per fare colpo su una ragazza, le ho raccontato di essere cresciuto in un’orfanotrofio a Sofia, che entrambi i miei genitori erano morti in un incidente stradale e che da esule ero riuscito ad arrivare a Milano dopo innumerevoli peripezie, grazie alla volontà di una ricca zia che aveva deciso di adottarmi e prendermi con sé. In realtà, come ho già detto, non parlo una parola di bulgaro, sono stato a Sofia la prima volta a 31 anni, quasi costretto da Ofelia, e non ho mai approfondito troppo le mie origini, quasi non mi interessassero, come se appartenessero a qualcun altro. Forse perché papà probabilmente si è sempre sentito più Gianni che Frateff e la Bulgaria è sempre rimasta lì, sottotraccia, relegata ai margini della nostra esistenza e utilizzata al massimo come componente esotica, da tirar fuori a qualche cena, per riempire qualche buco durante una conversazione.
In fondo della crisi ucraina non so nulla, e ho accettato di imbarcarmi per Sofia solo per provare a liberarmi dal mio passato che nonostante tutto continua a tormentarmi
Il mio bisnonno, Canko Cerkovski, pseudonimo di Canko Bakalov è stato un importante poeta e scrittore. Fu uno dei fondatori dell’Unione agricola nel 1899, sostenne l’emancipazione culturale e politica dei contadini bulgari e successivamente diventò addirittura ministro nel governo di A. Stambolijski (1918–23). Arrestato dopo il colpo di stato fascista del 1923, morì nel 1926 pochi mesi dopo la scarcerazione. Mia nonna, Stavruda (che in bulgaro significa Cristina), fu una delle più famose attrici dell’epoca, una specie di Eleonora Duse bulgara, e suo marito Georgi, notissimo attore come lei, fu direttore del Teatro Nazionale di Sofia. Facendo delle ricerche tempo fa ho scoperto, spulciando l’archivio del Corsera, diversi articoli su mio nonno e sulla sua prima trasferta italiana a Milano, a metà degli Anni 60, «in missione ufficiale per conto del ministero della Cultura bulgaro». Trasferta che avvenne in un periodo in cui probabilmente suo figlio viveva in Italia già da 20 anni, adottato nel frattempo da sua sorella Zora e da suo marito, l’ingegner Gerolamo Gianni, che tutti in famiglia chiamavano Giomino. Mi hanno anche raccontato che il giorno che è morto, l’ingegner Gerolamo Gianni (a tutti gli effetti mio nonno adottivo), si trovava proprio in compagnia dell’altro nonno, quello naturale, Georgi, che tutti in famiglia chiamavano Gosho, e che si sentì male mentre i due stavano giocando a scacchi. Me la sono immaginata più volte questa scena da film, con i miei due nonni, Gosho e Giomino, seduti uno di fronte all’altro, davanti alla scacchiera, nell’immenso giardino della villa ai Piani d’Invrea in un pomeriggio d’agosto. Giomino che si accascia improvvisamente, l’ambulanza che arriva di corsa, lo carica in tutta fretta verso l’ospedale di Genova e mio padre lontano, ignaro di tutto, steso a prendere il sole, con mia madre, su una spiaggia della Sardegna.

Rivivo questa scena anche adesso, mentre scendo a Roma Termini, con a tracolla la mia borsa camouflage con sopra scritto in rosso la parola SPACE, un libro di Carrère infilato nella tasca della giacca e in testa un cappello marchiato Patchy Cake Eater, disegnato dallo stilista giapponese Shigeki Morino, che mi ha regalato il mio amico Donny prima di scomparire misteriosamente a Bali, un paio di anni fa. «Tu sei un dandy», mi ha detto Donny porgendomi il cappello, «ed è giusto che questo lo tenga tu». Cake Eater era infatti il nomignolo attribuito ai dandy londinesi nel primo 900 anche se a dirvela tutta regaZ più che un dandy oggi mi sento come il protagonista di quel vecchio film di Marco Risi, Nel continente nero, con Diego Abatantuono e Corso Salani che, dopo la morte del padre, si imbarca in un viaggio di commiato verso il Kenya, che ben presto però si trasformerà in un’odissea. Perché in fondo della crisi ucraina non so nulla, e ho accettato di imbarcarmi per Sofia solo per provare a liberarmi dal mio passato che nonostante tutto continua a tormentarmi. Mentre salgo sull’aereo, nel frattempo, arriva la notizia che Putin ha rifiutato la tregua per la Pasqua ortodossa di domenica prossima.