Un piccolo trolley con le provviste sufficienti a sopravvivere, il fidato terrier Zhu-Zhu e la speranza di essere invisibile agli occhi dei soldati russi. Questo è tutto quello che il 61enne Igor Pedin ha deciso di portare con sé quando, terrorizzato dall’esercito di Putin che, girando di casa in casa, aveva iniziato ad aprire il fuoco contro i civili, ha deciso di abbandonare Mariupol, una delle città sotto assedio, per rifugiarsi nella zona relativamente più sicura di Zaporizhzhia, ancora sotto il controllo dei militari ucraini.
Igor Pedin, da Mariupol a Zaporizhzhia per provare a sopravvivere
Il viaggio, rigorosamente a piedi, lo ha portato a coprire un tragitto pari a circa 225 chilometri, l’equivalente della distanza che separa Roma da Napoli o Bologna da Milano, muovendosi nel bel mezzo di un conflitto, tra convogli di carri armati, veicoli corazzati e truppe pronte a sparare. Lungo il percorso, si è trovato ad aggirare strade disseminate di mine, attraversare ponti completamente distrutti dove anche solo un passo falso sarebbe stato fatale, superare case ridotte in macerie e soffermarsi sugli occhi di uomini e donne straziati dal dolore. Immagini che l’ex cuoco di bordo non avrebbe potuto raccontare se non avesse avuto la fortuna di riuscire nell’impresa. Pur non passando affatto inosservato e fermandosi addirittura a raccontare la sua storia a un manipolo di combattenti russi in uno dei tanti checkpoint lungo la strada che, dopo avergli riempito le tasche di sigarette e avergli fatto l’in bocca al lupo, lo hanno lasciato libero di proseguire la traversata. Un colpo di fortuna a cui pensa, con gratitudine, ancora oggi.

Come è iniziato il viaggio di Pedin
Quella di lasciare Mariupol a fine aprile non è stata una scelta improvvisata. Prima di mettersi in cammino, infatti, Pedin si è preparato meticolosamente. Dopo aver raccolto il necessario in una borsa dalla capienza di 50 chili, si è posto come primo obiettivo quello di raggiungere, in compagnia del suo cane, la periferia della città. Un traguardo che non avrebbe mai immaginato di riuscire a tagliare. Così, uscito di casa il 23 aprile alle prime luci dell’alba, si è mosso da via Tkochenko-Petrenko, vicino al porto, verso Kyprino Street e fino a imboccare l’autostrada per Zaporizhzhia, facendo un macabro slalom tra gli ordigni inesplosi e le pile di cadaveri accatastati ed evitando gli sguardi dei soldati russi che distribuivano cibo e acqua a file interminabili di gente disperata. «Ai loro occhi sembravo un vagabondo qualunque, non ero nessuno», ha spiegato al Guardian, «una volta fuori città, mi sono guardato indietro e ho pensato che fosse la decisione più giusta. Ho detto addio alla mia vita precedente e poi, nel boato di un’esplosione, ho continuato a camminare».

La meta successiva è stata Nikolske, a 20 chilometri di distanza. Dove ha incontrato un uomo che gli ha offerto ospitalità e confessato la sofferenza di seppellire un figlio di 16 anni. «L’ho visto seduto fuori dal suo appartamento. Mi ha invitato a bere qualcosa in onore del ragazzo», ha ricordato l’uomo, «mentre sorseggiavamo la vodka, mi raccontava che lo avevano ucciso i russi a Mariupol e ne avevano sotterrato il cadavere. Costringendolo a recuperarlo da solo, scavando a mani nude. Un’esperienza che lo aveva convinto a voler porre fine alla sua vita».
L’incubo del primo checkpoint
Dopo la notte trascorsa sul divano del suo nuovo amico, alle prime luci del nuovo giorno Pedin pensava già a come muoversi. «Una volta attraversato il centro cittadino, ho visto un checkpoint: c’erano i ceceni», ha detto, «è lì che mi sono accorto di non essere un’ombra. Mi sono venuti incontro per chiedermi dove fossi diretto e da dove venissi. Poi è arrivato un minivan, tre uomini mi hanno fatto salire, riportandomi di nuovo a 2 chilometri da Nikolske, in un edificio a due piani circondato dal filo spinato». Una volta messo da parte il bagaglio e legato Zhu-Zhu, il 61enne è stato trascinato fino al secondo piano, dove ad attenderlo c’era un ufficiale russo. «Era lì, dietro a una scrivania, e ha iniziato a interrogarmi. Gli ho mentito, dicendogli che per problemi di ulcera mi sarei dovuto recare con urgenza a Zaporizhzhia per un intervento». Non si sono fermati a questo botta e risposta: «Mi hanno fatto togliere la maglietta e, notando il livido sulla spalla, mi hanno accusato di aver nascosto un fucile. Continuavano a bombardarmi di domande sui tatuaggi che non avevo e, a un certo punto, hanno minacciato di uccidermi, fino a portarmi in uno stanzino dove quattro donne hanno scansionato le mie impronte digitali e scattato delle foto segnaletiche».

Quelle ore da incubo gli sono servite per ottenere un documento dal cosiddetto ‘ministero degli Affari Interni’ della Repubblica popolare di Donetsk, una sorta di lasciapassare. Tuttavia, prima di allontanarsi dal posto di blocco, lo hanno costretto ad aspettare un’auto che lo avrebbe condotto fino al villaggio di Rozivka. «Non arrivava nessuno ma non mi lasciavano libero», ha continuato, «poi, all’orizzonte, è apparso un furgoncino. Lo hanno fatto accostare e hanno obbligato il conducente a caricarmi a bordo».
La prova più difficile: oltrepassare un ponte distrutto
Da Rozivka in poi, tutto è filato liscio. Almeno fino a Verzhyna, dove sei soldati si sono scagliati nuovamente contro di lui, spogliandolo e svuotandogli la borsa. «Faceva freddissimo. Mi hanno messo le mani addosso per spingermi a entrare nel loro quartier generale, intimandomi a non fare passi falsi. Il giorno successivo mi avrebbero liberato: dovevo solo trascorrere la notte nello stanzino in cui mi avevano chiuso, con una zuppa e qualche scatola di carne di manzo». Così è stato e, dalla Casa della Cultura, ha camminato per oltre 14 ore, sottoponendosi all’ennesima perquisizione e all’ennesima notte sotto osservazione dei militari. Affamato e senza forze, si preparava a superare l’ostacolo più grande: passare oltre un ponte distrutto, che affacciava sulla ferrovia. «Puoi ingannare le persone ma non un cavalcavia che sta andando in pezzi». Non precipitare nel vuoto sembrava utopia ma, ponderando bene ogni passo, è riuscito a uscirne vivo. «Ho guardato il cane e ho urlato, ‘Ce l’abbiamo fatta’».

L’ultimo tratto e l’arrivo a Zaporizhzhia
Superato l’ultimo checkpoint, le colline poco prima di Tokmak e il villaggio di Tarasivka, a separarlo da Zaporizhzhia c’era soltanto una strada, con un bivio senza alcuna indicazione. «Mi è andata bene perché, da lontano, ho intravisto un camion, gli ho fatto cenno e l’autista mi ha fatto salire. Abbiamo viaggiato insieme per due ore in totale silenzio, non ce l’avrei mai fatta da solo. Passati gli ultimi controlli, mi ha lasciato a destinazione senza dirmi una parola ma regalandomi 1000 grivnia. Aveva capito tutto senza che io aprissi bocca». La tenda dove lo aveva fatto scendere era un hub di volontari, a cui ha immediatamente chiesto aiuto. «Una donna mi si è avvicinata per sapere da dove venissi e le ho detto che arrivavo da Mariupol», ha concluso, «è rimasta attonita e ha iniziato a dirlo in giro. Tutti mi hanno guardato con stupore. Ricorderò per sempre quell’istante: è stato un po’ il mio momento di gloria».