Dall’Azerbaijan alla Libia, la situazione dei Paesi da cui importeremo gas e petrolio
Diversificare le importazioni per ridurre la dipendenza dalla Russia. Questo è l'imperativo dell'Italia, che però alla ricerca di nuove fonti di energia, dall'Algeria all'Azerbaijan, finisce per bussare alla porta di personaggi discutibili.
Il petrolio e il gas costituiscono circa il 60 per cento delle esportazioni della Russia e il 39 per cento delle entrate statali. Un quarto del prodotto interno lordo di Mosca dipende dal settore energetico. Quando nel 2014 il prezzo del petrolio crollò, il rublo perse quasi il 60 per cento del suo valore, generando un’ondata di inflazione che costrinse la banca centrale russa ad alzare i tassi di interesse del 17 per cento. Appare quindi chiaro che se si vuole mettere in ginocchio la Russia, dopo l’invasione dell’Ucraina con le sanzioni la prima voce da colpire è quella riguardante le esportazioni di energia. Ma ridurre le importazioni da Mosca significa aumentarle da altri stati e l’Italia ha già iniziato trattative in proposito. In ambito internazionale si tenta intanto di convincere gli stati dell’Opec (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) ad accrescere la produzione di petrolio per permettere l’abbassamento dei prezzi.
Ma è inevitabile notare che per punire il sanguinario Putin alla fine si finisce al cospetto di stati che non hanno una particolare reputazione per il rispetto dei diritti umani. Lo sanno bene anche i nostri politici, che di recente si sono trovati a confrontarsi con i leader di Paesi dalla condotta non esattamente irreprensibile.
Algeria, gli arresti dei giornalisti e degli esponenti del movimento Hirak
Innanzitutto l’Algeria, da cui al 2021 l’Italia importava il 31,1 per cento di gas. Una quota seconda solo a quella proveniente dalla Russia (39,9 per cento) e ora da puntellare verso l’alto. Così il 28 febbraio il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha incontrato l’omologo Ramtane Lamamra e il collega dell’Energia Mohamed Arkab per discutere un eventuale aumento delle forniture. Normali relazioni internazionali, se non fosse che nel Paese nordafricano il potere politico è controllato da un’elite militare e da un blocco principale costituito dal partito di maggioranza, il Fronte di liberazione nazionale (Fln). Il presidente dal 2019 è Abdelmadjid Tebboune, mentre le forze di sicurezza, tra gli altri, hanno represso le proteste di strada del movimento Hirak che chiede un rinnovamento politico. Centinaia di persone sono state arrestate. Giusto per dare un’idea, lo scorso tre marzo, mentre l’Ucraina faceva i conti con l’invasione russa, il giornalista Khaled Drareni veniva condannato a sei mesi di carcere «per minaccia all’integrità del territorio nazionale e istigazione a manifestazione non armata». Corrispondente per il canale francese TV5 Monde e fondatore del portale Casbah Tribune, si era fatto conoscere all’estero per aver raccontato le primavere algerine, che nel 2019 portarono alla caduta del presidente Abdelaziz Bouteflika. Il provvedimento per Amnesty international sarebbe la conferma che in Algeria «è in atto un pericoloso giro di vite nei confronti della libertà di stampa». In totale secondo il Comitato per la liberazione dei detenuti sarebbero 333 i prigionieri per reati d’opinione nelle carceri del Paese, compreso il portavoce dei reporter locali Zaki Hannache.

Qatar, dal dramma delle morti bianche al ritorno della pena di morte
Da un Paese all’altro, più intensi si sono fatti i contatti anche col Qatar, dove sempre Luigi Di Maio è volato il 6 marzo. Con lui l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi. Al termine della spedizione, il ministro degli Esteri ha definito l’emirato «partner energetico storico e affidabile per l’Europa e per l’Italia», che ogni anno da lì importa il 10 per cento del gas. Il Paese quest’anno ospiterà i mondiali di calcio e per le operazioni di costruzione degli impianti che faranno da teatro alla kermesse sportiva al 2021 si calcolava che fossero oltre 6.500 i lavoratori morti. Al netto di ciò, il paese è un emirato in cui tutti i poteri esecutivi e legislativi sono concentrati nelle mani dell’emiro Tamim bin Hamad in carica dal 2013. I partiti politici non esistono, le elezioni si svolgono solo per i consigli municipali. I soldi delle risorse permettono ai cittadini di essere tra i più ricchi del mondo, ma la maggioranza della popolazione è costituita da lavoratori stranieri senza diritti politici e civili. Anche le donne sono spesso discriminate e dopo una pausa di un ventennio il Paese ha riattivato l’anno scorso le esecuzioni capitali: il primo condannato è stato un immigrato nepalese.

Libia e Congo, tra guerre civili ed elezioni non regolari
Tra le piste da battere, c’è pure la Libia, che, però, dalla caduta di Gheddafi è in preda al caos. Nel Paese, da cui proviene gas per il 4,4 per cento, si fronteggiano le milizie militari che da una parte spingono Abdelhamid Dbeibah, premier uscente sostenuto in passato dall’Onu che lo aveva designato provvisoriamente alla guida del Paese, e dall’altra Fathi Bashaga. L’ex ministro degli esteri e premier designato dal parlamento con sede a Tobruk lo scorso febbraio, non è riconosciuto se non dalla Russia che lo sostiene anche con il gruppo Wagner, un’organizzazione di paramilitari.
Non se la passa meglio il Congo è in preda a una cronica crisi politica, alla corruzione e a guerre endemiche tra gruppi armati ribelli, spesso con legami con nazioni confinanti. Il presidente Felix Tshisekedi è stato eletto nel 2019 dopo un accordo con l’ex presidente Joseph Kabila in elezioni che molti osservatori internazionali hanno ritenuto non regolari. E nei giorni scorsi l’arresto di un consulente alla sicurezza nazionale ha fatto pensare alla preparazione di un possibile golpe militare.

Angola, tra disordini interni e repressione delle proteste
L’Italia spera di incrementare le forniture da altri due grandi produttori di gas. Uno è l’Angola, paese africano uscito nel 1994 dalla guerra civile e governato tra corruzione e repressioni dal partito Mpla che controlla il potere da più di 40 anni, esattamente dal 1975 quando lo stato si affrancò dal Portogallo. Alla recente assemblea delle Nazioni Unite l’Angola si è astenuta dal condannare l’invasione russa in Ucraina, mentre il presidente João Lourenço annunciato come un grande riformatore, anche a causa dei danni causati dalla pandemia, ha fin qui deluso le aspettative. Al punto che nella capitale, Luanda, nell’ultimo anno sono state diverse le manifestazioni di protesta, sfociate in gravi episodi di violenza e linciaggi. Capro espiatorio ancora una volta sono stati i giornalisti, diversi di loro oggi sono imputati con l’accusa di oltraggio allo Stato per aver sostenuto come alle promesse della campagna elettorale non abbiano fatto seguito provvedimenti all’altezza.

Azerbaijan, il paradiso del gas sul mar Caspio
Ma più gas potrebbe giungere anche dall’Azerbaijan, in mano all’autocrate Ilham Aliyev succeduto nella carica di presidente nel 2003 al padre. Qui secondo Human Rights Watch viene condotto «un attacco violento verso le voci critiche e di opposizione, mentre lo spazio per l’attivismo indipendente è stato praticamente azzerato». Dal Paese sul mar Caspio, però, parte il Tap, gasdotto, che nato tra le polemiche, oggi, attraversando Grecia e Albania, sbuca in Puglia e garantisce sette miliardi di metri cubi oro azzurro allo Stivale. Importazione preziosa a cui fanno da contraltare «torture, interferenze nel lavoro degli avvocati indipendenti e restrizioni alla libertà dei media». Al 2020, il Paese nell’indice di democrazia stilato dall’Economist era al 146esimo posto su 167 paesi. E da allora la situazione non pare migliorata.
Perché chi esporta materie prime è spesso alla guida di governi autoritari
Nessuno di questi stati è considerato libero dall’osservatorio internazionale Freedom House. Ma questo non può essere solo un caso o un incidente della storia. Ha delle ragioni ben precise. Come diversi studi accademici hanno dimostrato, la repressione ha meno conseguenze, e anzi può essere addirittura più “comoda”, negli stati che per sostenersi non hanno bisogno dei loro cittadini. Le nazioni che in gran parte dipendono da un’economia fondata sui flussi finanziari dei loro prodotti energetici, possono ricorrere con più libertà a repressioni ed arresti, senza mettere in pericolo la macchina dello stato che continua a funzionare, spesso ben oliata dalla corruzione, grazie ai profitti generati dal mercato delle risorse.