Luglio 2007. Quattro del pomeriggio. Con il fido Baj, che per me è una specie di fratello maggiore anche se è più piccolo di un anno, siamo diretti verso Bellagio mentre dalle casse dello stereo della macchina risuona l’ultimo singolo dei Club Dogo, Giovane e pazzo a un volume assurdo. C’è un caldo porco e sono strafatto di ganja. Non mi tolgo mai per tutta la durata del viaggio gli occhiali da sole mentre dibatto del più e del meno, rammaricandomi della definitiva chiusura del mio rapporto con Lucilla e raccontando del mio recente trasferimento dalla mansarda di via Tiepolo allo Squat Konkordia, all’interno del quale ho occupato, grazie ad amici comuni, uno splendido appartamento con vista Viale Piave. Baj mi ascolta, dispensa qualche consiglio, si dimostra paziente, ogni tanto mi chiede di passargli la canna.
Questa sera faremo i barman alla festa di compleanno di un certo Edoardo, in una mastodontica villa sul Lago di Como. Un immenso giardino e l’acqua piatta della piscina ci accolgono quando arriviamo a destinazione intorno alle sei di sera. Alle nove e mezza arrivano i primi invitati e noi siamo dietro a un improvvisato banco da bar a preparare cocktail, troppo eleganti, vestiti completamente di nero. Fino a mezzanotte siamo letteralmente assaliti dagli invitati in maschera mentre camerieri girano ovunque con vassoi giganteschi stracolmi di tartine al caviale o piatti stracolmi di tentacoli drappeggiati su ciuffi di prezzemolo. Io mi limito a dire «ciao». Seguo le istruzioni, bevo birra chiara. È una festa veramente inquietante, ma è anche uno specchio. C’è Marilyn Monroe, il drugo Alex di Arancia Meccanica, Zorro, Wonder Woman, Peter Sellers e in breve tempo anche noi due siamo completamente ubriachi. Poi Dylan Dog si butta in piscina vestito e si scatena il pandemonio mentre a un successo di Pupo seguono le note di Lamette di Donatella Rettore.
Quando alle 3 e mezza il fido Baj mi viene a recuperare sono completamente sconvolto e quando arrivo alla macchina noto che ci sono bottiglie dappertutto (ne sono state contate 47), una cesta di lime e una cassetta di fragole
Io rollo in tutta tranquillità uno spino dalla mia postazione e inizio a ballare, fuori come una scimmia, in giro per la festa. Barcollante incrocio lo sguardo di una tipa a cui avevo fatto gli occhi dolci mentre durante la serata le preparavo una serie di mojito, così mi avvicino maraglio con il joint tra le labbra e un passo improbabile mentre tutti saltano con gli House of Pain. Le offro sbiascicando un paio di tiri di canna poi lancio via le Nike e il grembiule, e mi scateno con un vecchio pezzo dei Beastie Boys. In quel momento sono interpretato da John Travolta. All’improvviso mi ritrovo su una sedia al centro del giardino e la tipa a cui avevo fatto gli occhi dolci mentre durante la serata le preparavo una serie di mojito mi è seduta in braccio. Iniziamo a parlare fitti fitti e siamo sempre più vicini. Dopo un tempo imprecisato ci alziamo e tenendoci per mano andiamo a sdraiarci su dei tappeti in zona piscina mentre in diffusione c’è la musica di Pulp Fiction. È il segnale per un bacio. Iniziamo a rotolarci sul prato poi la tipa, a cui avevo fatto gli occhi dolci mentre durante la serata le preparavo una serie di mojito, piega il collo in modo da porgermi la bocca e quando le nostre labbra si incontrano iniziano a piovere diamanti. Quando alle 3 e mezza il fido Baj mi viene a recuperare sono completamente sconvolto e quando arrivo alla macchina noto che ci sono bottiglie dappertutto (ne sono state contate 47), una cesta di lime e una cassetta di fragole. Faccio ritorno a casa che sono quasi le sei del mattino, con in tasca un biglietto con sopra scritto un numero di telefono. Sul biglietto c’è scritto Zoe.

Marzo 2022. Con Zoe non ci siamo più visti fino all’agosto della stessa estate a Barcellona, mentre ero in vacanza con DFA. Zoe, bellagina doc, dopo un anno a Londra e tre ad Amsterdam si era trasferita da qualche mese in Spagna dove si era messa a fare la lavapiatti provando invano di darsi una regolata. L’inverno prima era andata nel monastero thailandese di Thankrabok, a nord di Bangkok, sperando che l’Oriente riuscisse lì dove Amsterdam aveva fallito. Dopo tre giorni di terapia a base di emetici era salita sul primo autobus per Bangkok, aveva preso una stanza in un albergo e aveva chiesto al bell-boy dell’hotel di procurarle un po’ di eroina. Da lì era tornata a Bellagio e successivamente era partita per Barcellona. Di lei ricordo solo una festa sulla spiaggia una notte alla Barceloneta, noi che camminiamo sbilenchi verso il mare e io che le salto sopra cominciando a muovermi cercando di scoparla. Ricordo che però non avevamo i fottuti preservativi e così si era accontentata di menarmelo un po’, ma dato che di venire non se ne parlava poi rinunciammo e tornammo a ballare. Da quel momento non la vidi più ma nella mia testa ancora oggi è rimasta la tipa a cui avevo fatto gli occhi dolci mentre durante la serata a Bellagio le preparavo una serie di mojito.
L’idea è di registrare una trasmissione dal giardino commentando il centenario della nascita di Fenoglio, l’ultima raccolta di reportage di Bernard-Henry Levy mentre facciamo il punto sulla crisi ucraina
Da quella serata invece di Zoe rimase l’amicizia con Edoardo, il padrone della mastodontica villa all’interno della quale si tenne la festa, con il quale ho fatto poi splendidi viaggi a Parigi, Sofia e New York, dal quale sto andando oggi per un’intervista per la radio che devo fare a suo fratello, un diplomatico. L’idea è di registrare una trasmissione dal giardino della villa passando una selezione di dischi jazz notevolissima (che comprende pezzi stratosferici di Art Blakey, di Lee Morgan, di Donald Byrd) commentando, tra un disco e l’altro, il centenario della nascita di Fenoglio, una serie di considerazioni filosofiche tratte dall’ultima raccolta di reportage di Bernard-Henry Levy e dibattendo sulla riedizione di Zona di Mathias Enard da parte dei tipi di e/o, mentre facciamo il punto sulla crisi ucraina.
Arrivo a Bellagio con indosso la mia giacca sahariana verde militare atteggiandomi a reporter di guerra e mentre passo sotto il Grand Hotel Villa Serbelloni torno indietro nel tempo, pensando alla prima volta che venni qui, mano nella mano con mio zio Nando da Moltrasio e dovevo avere all’incirca sei o sette anni. «Un tempo questa villa era dei nostri avi», mi disse mio zio, raccontandomi la storia di questo palazzo, circondato da un immenso parco, situato sul crinale interno della collina, protetto dai venti che soffiano dal lago. La leggenda vuole che la collina di Bellagio, su cui oggi sorge villa Serbelloni, fosse un tempo la cornice che faceva da sfondo ad un’antica dimora romana appartenuta a Plinio il Giovane. Trasformato in castello nel corso del Medioevo, l’edificio fu presto abbandonato per divenire covo di briganti che sfruttavano la posizione a cavallo fra i due rami del lago. Nel 1778 la proprietà passò al conte Alessandro Serbelloni, esponente di una delle più nobili e ricche famiglie lombarde, di cui mio zio Nando era diretto discendente, che vi si dedicò anima e corpo, concentrandosi soprattutto sulla realizzazione dell’immenso parco esterno, dove fece costruire piste carrozzabili, viali e sentieri per una lunghezza totale di circa 18 km. Nel 1845, Gustave Flaubert la menzionò nelle note del suo diario di viaggio: «Uno spettacolo fatto per il piacere degli occhi», ne scrisse. «Qui si vorrebbe vivere, e qui morire». Venduta nel 1905, la proprietà dei Serbelloni fu trasformata in hotel. Nel 1930 la villa fu acquistata dalla principessa americana Ella Walker, giovane sposa del principe Thurn und Taxis che, alla sua morte, nel 1959, la donò alla Fondazione Rockfeller di New York che tuttora la gestisce.
«Purtroppo mio fratello è dovuto partire questa mattina d’urgenza per la Polonia», mi ha detto a un certo punto Edoardo, con una leggera esitazione. «Si scusa per l’intervista e mi ha pregato di lasciarti questo libro, scritto da un bulgaro come te, e questo biglietto»
Più tardi a casa di Edoardo siedo in una stanza circondato dagli sfavillanti pavimenti in vecchio parquet di palissandro indiano e dai tappeti disegnati da Christine Van Der Hurd. Mi inebetisco davanti a una serie di apparecchi televisivi collegati a un sistema satellitare digitale che riceve canali da tutto il mondo fantasticando sui vestiti firmati contenuti negli armadi al piano di sopra che immagino essere foderati di un kevlar abbastanza spesso da fermare proiettili di carabine ad alta potenza e schegge volanti di bombe. «Purtroppo mio fratello è dovuto partire questa mattina d’urgenza per la Polonia», mi ha detto ad un certo punto Edoardo, con una leggera esitazione. «Si scusa per l’intervista e mi ha pregato di lasciarti questo libro, scritto da un bulgaro come te, e questo biglietto». L’ultima scena è un immagine di me in diretta con le cuffie da deejay che stringo tra le mani da una parte Party sotto le bombe di Elias Canetti e dall’altra un biglietto con scritti sopra questi versi di Primo Levi tratti dal Canto dei morti invano, con i quali ho deciso di iniziare la trasmissione:
Sedete e contrattate
A vostra voglia, vecchie volpi argentate.
Vi mureremo in un palazzo splendido
Con cibo, vino, buoni letti e buon fuoco
Purché trattiate e contrattiate
Le vite dei nostri figli e le vostre.
Che tutta la sapienza del creato
Converga a benedire le vostre menti
E vi guidi nel labirinto.
Ma fuori al freddo vi aspetteremo noi,
L’esercito dei morti invano,
Noi della Marna e di Montecassino,
Di Treblinka, di Dresda e di Hiroshima:
E saranno con noi
I lebbrosi e i tracomatosi,
Gli scomparsi di Buenos Aires,
I morti di Cambogia e i morituri d’Etiopia,
I patteggiati di Praga,
Gli esangui di Calcutta,
Gl’innocenti straziati a Bologna.
Guai a voi se uscirete discordi:
Sarete stretti dal nostro abbraccio.
Siamo invincibili perché siamo i vinti.
Invulnerabili perché già spenti:
Noi ridiamo dei vostri missili.
Sedete e contrattate
Finché la lingua vi si secchi:
Se dureranno il danno e la vergogna
Vi annegheremo nella nostra putredine.
*I nomi e i fatti narrati sono frutto di fantasia.