Le tecniche di Mosca per convincere i russi musulmani ad arruolarsi

Matteo Innocenti
01/11/2022

Mosca ha giustificato l’invasione del 24 febbraio con la necessità di unire sotto la stessa bandiera russi e ucraini, che sono perlopiù cristiani ortodossi. Eppure, oltre ai mobilitati, sono numerosi i volontari musulmani che hanno scelto di arruolarsi. Merito, o meglio colpa, di una propaganda ad hoc.

Le tecniche di Mosca per convincere i russi musulmani ad arruolarsi

Nella Federazione russa vivono circa 10 milioni di musulmani e, verrebbe da dire, Vladimir Putin conta molto su di loro. Già prima che fosse annunciata la mobilitazione parziale, le regioni a maggioranza islamica della Russia figuravano tra quelle con il maggior numero di vittime nel conflitto in Ucraina. Non è certo stato un caso che le proteste più accese, dopo l’annuncio da parte di Putin, si siano verificate in Daghestan, in cima alla lista. Al quarto posto per militari caduti c’è la Baschiria, al decimo la Cecenia, al 12esimo il Tatarstan.

Un triste paradosso, considerando che nella preparazione ideologica di Putin alla cosiddetta “operazione militare speciale” ha giocato un ruolo di rilievo la necessità (per il Cremlino) di unire sotto la stessa bandiera russi e ucraini, in maggioranza slavi e cristiani ortodossi, mentre buona parte delle persone che vengono obbligate a combattere, proveniente da queste regioni, non lo sono. Se non ha senso parlare delle motivazioni degli uomini costretti a mobilitarsi, quando si parla di soldati volontari andati in guerra in Ucraina, tra difficoltà economiche e dipendenza dalle autorità locali, fondamentale è stato ed è ancora l’indottrinamento ideologico: nella propaganda rivolta alla fetta di Russia musulmana, Mosca ha dovuto far ricorso a una discreta dose di creatività.

Le tecniche di Mosca per convincere i russi musulmani ad arruolarsi come volontari per la guerra in Ucraina.
Ramzan Kadyrov a colloquio con Vladimir Putin (Getty Images)

Il leader ceceno Kadyrov parla di «jihad»

Soldati di fede islamica, pronti a dare la vita per una porzione d’Ucraina. Non si può non pensare alla Cecenia di Ramzan Kadyrov, tra i più accesi sostenitori dell’invasione russa, e ai suoi “kadyroviti”, come vengono chiamati i sanguinari membri della sua milizia paramilitare. Esortando gli uomini delle repubbliche russe a maggioranza musulmana del Caucaso Settentrionale (e non solo) a unirsi alla lotta, Kadyrov ha recentemente definito la guerra in Ucraina «una grande jihad a cui tutti dovrebbero prendere parte», aggiungendo: «Non faremo prigionieri questi shaitan. Li bruceremo». “Shaitan” è un termine dell’Islam che identifica genericamente un diavolo, uno spirito maligno. Da guerra e basta a guerra santa: «L’invocazione alla guerra per motivi di fede, ma non apertamente cristiani, è probabilmente un tentativo di trascendere le divisioni religiose e stabilire le condizioni per il reclutamento continuato di minoranze etniche e religiose», ha dichiarato il think tank statunitense Institute for the Study of War.  Piccola digressione: i kadyroviti nacquero nel 1994, cioè ai tempi della prima guerra cecena, da un’idea di Akhmat Kadyrov, padre di Ramzan, come difesa parallela della neonata Repubblica di Ichkeria. Lo stesso Akhmat, al quale oggi è intitolata la principale moschea di Grozny, all’inizio della seconda abbandonò il fronte indipendentista offrendo la propria collaborazione alle forze russe. Ucciso nel 2004 in seguito a un attentato esplosivo, riposa nella già citata moschea.

Il generale baschiro caduto per la Russia: l’esempio perfetto

Come detto, tra le repubbliche più colpite dalla guerra in Ucraina c’è la Baschiria (o Repubblica dei Baschiri), comprendente parte degli Urali meridionali e delle pianure adiacenti. In questa entità federale, dove i musulmani rappresentano il 60 per cento della popolazione, come simbolo della mobilitazione è stato scelto Minigali Shaymuratov, generale di cavalleria baschiro dell’Armata Rossa durante la Seconda guerra mondiale, caduto in battaglia nel Donbass nel 1943. Si tratta di una figura perfetta: baschiro, ma pronto a morire per l’Unione sovietica e per questo capace di mettere d’accordo sia baschiri appunto, sia russi e tatari del Volga, cioè i tre principali gruppi etnici della repubblica. La Baschiria ha tre battaglioni: gli altri due sono intitolati al maggiore russo Alexander Dostovalov, paracadutista nativo della capitale Ufa, e a Salavat Julaev, eroe nazionale baschiro per aver partecipato alla rivolta di Pugačëv che ebbe luogo nel XVIII secolo. Troppo russo il primo, troppo baschiro il secondo: il “volto” a cui devono guardare i possibili volontari è soprattutto quello di Shaymuratov.

Le tecniche di Mosca per convincere i russi musulmani ad arruolarsi come volontari per la guerra in Ucraina.
Imam Shamil (Getty Images)

In Daghestan evocata la figura dell’imam che si oppose all’Impero

Se Mosca in Baschiria ha messo da parte Julaev, in Daghestan la propaganda punta invece molto sulla figura dell’imam Shamil, politico e appunto imam àvaro, guida della resistenza antirussa nel Caucaso dal 1834 al 1859. Insomma, il suo nome viene usato per mobilitare i nativi del Daghestan per la guerra in Ucraina, il cui obiettivo originale era il «ripristino delle terre russe», quando invece quasi due secoli fa combatteva contro l’Impero degli zar.

Da un sergianesimo all’altro: quando la religione si piega al potere

Arrestato dalla polizia segreta bolscevica, una volta tornato in libertà nel 1927 il patriarca Sergio di Mosca invitò i russi ortodossi ad accettare il governo comunista, loro ostile, come proprio. Il termine “sergianesimo“, negli ambienti ortodossi, da allora designa una politica di lealtà incondizionata al regime sovietico. Anche i musulmani hanno avuto il loro Sergio: il mufti Abdurhaman Rasulev, che era solito inviare lettere di sostegno a Stalin e ricevere ringraziamenti in risposta. Nell’islam, il mufti è un dotto autorizzato a emettere responsi in materia giuridica e anche teologica, basati sulla Shariʿah. A marzo, dunque con il conflitto in Ucraina già in corso, si è svolta a Vladikavkaz una conferenza intitolata “Dispositivi spirituali e missione sociale delle organizzazioni religiose nel contesto della formazione dell’identità civile russa”, che ne ha riuniti parecchi. Alla fine i leader musulmani hanno rilasciato una dichiarazione congiunta che, citando esempi della storia islamica, giustificava l’attacco preventivo, indicando i musulmani morti in combattimento come “shaid”. Ossia martiri, che hanno sacrificato la vita per la difesa dell’Islam. Secondo quanto riportato dai media un certo numero dei firmatari, tra cui il mufti dell’Ossezia Settentrionale-Alania Khadzhimurat Gatsalov, ha affermato in conversazioni private che le firme erano state retrodatate o aggiunte senza il loro consenso.

Le tecniche di Mosca per convincere i russi musulmani ad arruolarsi come volontari per la guerra in Ucraina.
2018, Vladimir Putin a colloquio con Talgat Tadzhuddin (Getty Images)

D’altra parte, se esistono tante importanti figure musulmane fedeli al Cremlino, come i mufti Talgat Tadzhuddin, Albir Krganov e Ismail Berdiyev, che fin da subito hanno sostenuto l’attacco all’Ucraina, ce ne sono diversi che hanno buoni motivi per non appoggiare incondizionatamente Mosca: si trova proprio in Ossezia Settentrionale (repubblica a maggioranza ortodossa) la città di Beslan, dove nel 2004 l’irruzione delle forze speciali russe in una scuola a seguito di un sequestro da parte di separatisti ceceni costò la vita a più di 300 persone (tra cui 186 bambini). Ebbene, a stendere la contestata dichiarazione sarebbe stato Ali Vyacheslav Polosin, il primo sacerdote russo ortodosso convertito pubblicamente all’islam, che vanta trascorsi come assistente del patriarca Kirill quando quest’ultimo (vicinissimo a Putin) era a capo del Dipartimento per le relazioni ecclesiastiche esterne del Patriarcato di Mosca: oggi viene visto come la nuova incarnazione del “sergianesimo musulmano”.

Le tecniche di Mosca per convincere i russi musulmani ad arruolarsi come volontari per la guerra in Ucraina.
Ali Vyacheslav Polosin (Facebook)

I giovani mufti di Baschiria e Tatarstan, che hanno detto sì al Cremlino

Il sostegno alla guerra da parte di feroci lealisti come i mufti di Cecenia (Salakh Mezhiev) e Daghestan (Ahmad Abdulaev) non è stato una sorpresa. A deludere chi invece contava su di loro è stata la posizione simile assunta da giurisperiti musulmani delle repubbliche a maggioranza islamica meno conosciute. Ecco di nuovo la Baschiria con Aynur Birgalin: accusato dai suoi detrattori di diffondere il wahabismo e dunque di posizioni integraliste, una volta eletto mufti (a soli 30 anni) si è sostanzialmente genuflesso al Cremlino, benedicendo la partecipazione volontaria dei musulmani della Baschiria, nonostante l’esistenza di già tre battaglioni. Il secondo caso è quello di Kamil Samigullin, diventato mufti del Tatarstan a soli 26 anni: anche lui ha sostenuto la mobilitazione dei musulmani, certo della «fondatezza della decisione del presidente, formata sulla base dell’opinione di esperti e della valutazione competente di professionisti delle agenzie chiave del Paese». Due casi che, come molti altri, dimostrano una cosa: chiunque arrivi in una posizione di leadership nel sistema delle istituzioni musulmane (e religiose in generale), finisce per adeguarsi alla politica del Cremlino. Le alternative? Probabilmente quelle in voga ai tempi del sergianesimo: repressione, tortura, esilio o morte.

Cristiani e musulmani insieme: la sparatoria di Belgorod

Kadyrov non ha recentemente parlato solo ai musulmani del Caucaso Settentrionale, dove si trovano anche Inguscezia, Cabardino-Balcaria, Karačaj-Circassia, le tre repubbliche a maggioranza islamica finora non citate. Mosca punta infatti ai musulmani di tutta la Russia, così come a quelli che abitano le ex repubbliche sovietiche, i quali andrebbero a combattere in Ucraina, ovviamente, da volontari. Questo non può non far tornare alla mente quanto accaduto a metà ottobre, quando in una sparatoria in un centro di addestramento militare di Belgorod sono morte 11 reclute. A sparare, ha spiegato il ministero della Difesa russo, «terroristi provenienti da un Paese ex sovietico membro della Comunità degli Stati Indipendenti». Secondo l’intelligence di Kyiv i due aggressori, poi uccisi, sarebbero stati originari del Tagikistan e avrebbero aperto il fuoco contro gli altri, presumibilmente cristiani, dopo una discussione relativa alla fede.