Con l’invasione dell’Ucraina, la maggior parte degli edifici storici di Kharkiv, città nota nel mondo per la sua ricchezza artistica, era stata distrutta dai bombardamenti. Da allora i residenti rimasti hanno provato a catalogare il patrimonio sopravvissuto alla distruzione e, dei 68 palazzi inseriti dall’amministrazione tra i beni di alto valore architettonico, 27 risultano essere gravemente danneggiati o distrutti. Un bilancio che li ha spinti a salvaguardare immediatamente i pochi rimasti integri, ricoprendoli di sabbia.
L’attacco all’arte e all’architettura come crimine di guerra
Secondo le disposizioni del tribunale penale internazionale, la cancellazione dell’identità di una città attraverso la demolizione dei suoi monumenti è considerata a tutti gli effetti un crimine di guerra. E il trattamento che le truppe di Vladimir Putin hanno riservato all’architettura di Kharkiv denota l’intenzione di privarla di quella che, per anni, è stata la sua anima. Prima della guerra, passanti e turisti potevano passeggiare tra cottage tradizionali, edifici ispirati all’art nouveau, strutture ricche di richiami allo stile neoclassico e rinascimentale, case in mattoni risalenti al XIX secolo, traccia del passaggio dei cosacchi e del boom industriale sotto l’impero zarista, e condomini cooperativi d’inizio Novecento.

Tra i target dei militari anche chiese e distretti residenziali
Nel mirino dei soldati non sono finiti soltanto edifici di valore politico o militare come la sede della Corte d’Appello, quella dell’amministrazione regionale e la base dell’intelligence. In pieno centro, gran parte di via Myronosytska è stata rasa al suolo mentre, nella parte orientale della città, le bombe hanno pesantemente danneggiato diverse chiese e, in particolare, il distretto residenziale che, nel 1929, venne costruito per accogliere gli operai impiegati nella più grande fabbrica di trattori del Paese. Il 15 aprile, il complesso di appartamenti è stato colpito, in più occasioni, da una pioggia di proiettili di artiglieria e, in un secondo momento, da una bomba a grappolo che ha ucciso almeno 10 persone ferendone 42. «Quello che è successo ci ha distrutto», ha spiegato al Guardian Kateryna Kublytska, architetta e restauratrice, «vedere tutto crollare così mi ha provocato una tristezza indescrivibile».
Uspenskyi Cathedral in Kharkiv damaged by Russian shelling. During this shelling, people were hiding in the temple. No one was hurt, but windows and stained-glass windows were broken, church utensils were damaged#StandWithUkraine pic.twitter.com/bvTl2AjwAr
— Oleksandra Matviichuk (@avalaina) March 3, 2022
La strada verso la ricostruzione
Nonostante l’esercito russo continui ad attaccare la città, soprattutto nelle zona settentrionale e orientale, inizia a farsi spazio il desiderio di pensare alla ricostruzione per non lasciarsi trascinare dal dolore. Dopo aver bocciato la proposta del designer britannico Norman Foster, accusato dal preside della Kharkiv School of Architecture di ‘colonizzazione intellettuale’, studenti e professionisti con anni di carriera sulle spalle si sono detti felici di collaborare con colleghi stranieri ma hanno ribadito l’importanza di affidare il progetto di ripristino urbano a persone del posto. Conoscendo bene la città, infatti, lavorerebbero con più consapevolezza, dando la giusta attenzione alle esigenze dei residenti.

«Al momento è tutto legato all’ipotesi, viviamo in una realtà che non ci dà alcuna certezza», ha sottolineato Kublytska, «siamo vicini alla frontiera, potremmo essere bombardati ancora per parecchi anni ma iniziare a pensare a come muoversi non ci costa nulla». Ecco perché, assieme al suo team, sta lavorando a quella che potrebbe essere la rinascita dell’architettura di Kharkiv, un nuovo corso in grado di restituire importanza a simboli che, per troppo tempo, la gente ha dato per scontati e non ha apprezzato a sufficienza. Fino a quando non li ha visti sbriciolarsi sotto il fuoco nemico. «Il nostro obiettivo è aiutare i residenti a valorizzare l’autenticità del patrimonio e riportare in vita il nostro codice culturale», ha concluso, «non possiamo permettere che si perda perché è tutto quel che ci rimane della nostra storia collettiva».