Su come debba finire questa guerra l’Occidente è diviso: se anche all’interno dell’amministrazione americana non c’è unità tra falchi e colombe, tra chi sostiene la linea dura per relegare definitivamente in un angolo la Russia e i moderati che pensano che gli Stati Uniti dovrebbero tirarsi fuori da un gioco diventato troppo pericoloso e controproducente, in Europa le divisioni sono ancora più evidenti.

Londra spinge per colpire Mosca, il trio italo-franco-tedesco temporeggia
Da un lato i satelliti geopolitici di Washington che vogliono aiutare Kyiv per colpire Mosca, guidati dalla Gran Bretagna; dall’altro la vecchia Europa più pragmatica, quella del trio italo-franco-tedesco che si è recato in Ucraina con un placebo, offrendo lo status immediato di candidato per l’entrata nell’Unione, già dato alla Turchia nel 1999 e alla Macedonia del Nord nel 2005. Ma una cosa è mandare armi nell’ex repubblica sovietica, un’altra allargare il club di Bruxelles a un Paese di oltre 40 milioni di abitanti con tutti i problemi che Kyiv ha, oltre alla guerra. Questione di anni, insomma, se non di uno o due decenni. Sulla questione pesa ovviamente anche il risultato del conflitto in corso, ancora tutto da vedere. La frangia capitanata da Londra spinge per la sconfitta russa, basta guardare alle recenti dichiarazioni della ministra degli Esteri Liz Truss, secondo cui l’epilogo dell’invasione dell’Ucraina deve essere anche un monito per altri potenziali aggressori futuri, e per questo Vladimir Putin deve non solo perdere la guerra, ma essere messo nelle condizioni di non ricavarne alcun vantaggio. Concretamente non si sa bene cosa questo voglia dire, ma fa il pari con quanto affermato dal ministro della Difesa ucraino Olexey Reznikov, secondo cui Kyiv vincerà il conflitto e riconquisterà anche la Crimea.
Il Cremlino non è preoccupato dal fattore tempo
Al momento, dopo quasi quattro mesi di guerra, le cose sono molto diverse da come vorrebbero Truss e Reznikov, assomigliano più a come le descrive Dmitry Medvedev, ex presidente e fedelissimo di Putin da oltre un trentennio, che praticamente ogni giorno attacca con disprezzo l’Occidente, con l’aiuto del suo spin doctor o social media manager che dir si voglia e con buona pace di chi lo credeva o lo dipingeva una colomba: quella che in Russia viene chiamata ‘operazione speciale’, e non guerra, procede nel Donbass, nel sud del Paese è sotto controllo il corridoio sul Mare d’Azov sino alla Crimea, Odessa per ora è rimasta fuori, ma la Transnistria è a un passo. Quello che l’Occidente non pare aver capito è che il Cremlino, a torto o a ragione, non pare preoccuparsi del fattore tempo, le sanzioni economiche non incidono sulle scelte politiche e comunque a un certo punto si dovrà negoziare.

L’Ucraina prima o poi sarà costretta a un accordo al ribasso
Anche se non si conoscono i piani di Putin, tra occupazioni, annessioni e opzioni varie sul terreno, è chiaro che la Russia non cederà facilmente le regioni sinora occupate, sia quelle tra il 2014-2015 sia quelle prese nei primi mesi della guerra in corso. È più probabile, realisticamente, che l’Ucraina possa essere costretta a un accordo al ribasso, come già successo, al di là della propaganda interna e antirussa. Come la conquista di Odessa sarebbe un’operazione problematica, infinitamente di più lo sarebbe sull’altro fronte riprendersi la Crimea, con la base russa di Sebastopoli annessa. Il che vuol dire che prima o poi a Kyiv i piedi dovranno tornare per terra.
C’è il rischio che il conflitto continui a lungo
Il conflitto potrà protrarsi per lungo tempo, congelato in zone, sottotraccia in altre, come sta accadendo da otto anni e sul modello di altri, dentro e fuori lo spazio postovietico. Naturalmente andrà di pari passo ai cambiamenti interni sia in Russia che in Ucraina, dato che né Putin né Zelensky sono eterni, sia dal punto di vista anagrafico che politico e la soluzione duratura dovrà essere condivisa, non solo da Mosca e Kyiv, ma proprio da chi adesso continua a stare lontana da opzioni concrete per il futuro, ossia Washington, che dovrà trovare come tutti gli altri la via d’uscita in un teatro di cui come al solito si è conosciuta l’apertura, ma non la chiusura. Per l’allora Unione Sovietica l’avventura in Afghanistan è durata 10 anni, come quella degli Usa in Iraq, sempre la metà di quella in Afghanistan tra il 2001 e lo scorso anno, con Stati Uniti e Nato a lasciare dopo due decenni di nuovo il campo ai talebani. Anche per risolvere il rebus in Ucraina i tempi saranno lenti, tanto più che nessuno pare adesso avere le idee chiare, nemmeno a grandi linee.