La guerra in Ucraina e la partita personale di Erdogan

Stefano Iannaccone
01/04/2022

Imporsi come mediatore tra Russia e Ucraina rappresenta per Erdogan l'occasione per riabilitarsi a livello internazionale dopo il conflitto siriano e il ricatto sui profughi. Ma anche per risalire nei sondaggi in vista delle elezioni del 2023. Il cui esito è tutt'altro che scontato.

La guerra in Ucraina e la partita personale di Erdogan

Vuole cancellare l’immagine del leader che attacca i curdi nel nord della Siria, intimando il silenzio all’Europa, pena il “liberi tutti” dei profughi siriani. In spregio ai miliardi di euro che l’Ue gli versa per evitare la migrazione di massa verso il Vecchio Continente. E non solo: vuole ristabilire la popolarità nel suo Paese dove la situazione economica mina il consenso elettorale. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan vede così nella guerra in Ucraina un’opportunità per uscire dall’angolo in cui è finito. In realtà più per le questioni interne che geopolitiche.

gli interessi della turchia e di erdogan nella descalation tra russia e ucraina
Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ed Erdogan a Bruxelles nel 2020 (Getty Images).

Le mosse di Erdogan in vista delle elezioni del 2023

Nel giugno del 2023, infatti, ci sono le elezioni che decideranno se resterà al comando ad Ankara. Un esito non più scontato come in passato, nonostante la caccia agli oppositori, con l’incarcerazione degli affiliati a Hizmet, il movimento del suo grande nemico (benché ex alleato) Fetullah Gülen. Le opposizioni politiche si stanno però organizzando. Così, proprio quell’Erdogan che aveva deliberatamente deciso di bombardare i combattenti del Rojava, intervenendo in Siria, ha indossato i panni dell’uomo di pace, che sovrintende i negoziati tra Kyiv e Mosca per favorire una tregua e quindi un accordo. Una mano tesa all’Occidente per spazzare via le polemiche del passato, come già avvenuto con il presidente del Consiglio, Mario Draghi. Ad aprile 2021, poche settimane dopo il suo insediamento, l’ex numero uno della Bce lo aveva definito «un dittatore», aumentando le tensioni diplomatiche sull’asse Roma-Ankara. Oggi quell’incomprensione è messa alle spalle. Ampiamente.

 

Il patto delle opposizioni per sconfiggere il Sultano

La risoluzione del conflitto in Ucraina sarebbe un volano per accreditarsi come grande leader in grado di fare da paciere. Il gradimento nei sondaggi è colato a picco: alla fine del 2021 era al 38 per cento, la cifra più bassa di sempre da quando, nel 2002, è asceso al potere. Nemmeno la crisi valutaria della lira turca, nel 2018, lo aveva colpito così duramente in termini di consensi, nonostante l’umiliante sconfitta alle Comunali di Istanbul. L’aumento record dell’inflazione a febbraio, che ha superato addirittura il 48 per cento, di sicuro non è un dato che favorisce una risalita nei sondaggi. L’incremento dei prezzi fagocita l’aumento del Pil. In questo contesto le opposizioni hanno siglato quello che è stato definito «lo storico patto per battere Erdogan». Il leader del Chp (il Partito repubblicano, quello più forte), Kemal Kiliçdaroglu, ha lavorato per trovare un’intesa con altre formazioni, tra cui quella dell’ex premier ed ex alleato di Erdogan, Ahmet Davutoglu, la destra del partito İyi, guidata da Meral Aksener, e il soggetto fondato da Ali Babacan, altro ex sodale di Erdogan. Insieme a loro c’è poi il partito islamico Saadet Partisi (Felicity). «Siamo determinati a costruire un sistema forte, liberale, democratico ed equo che stabilisca la separazione dei poteri con una legislatura efficace e partecipativa, un esecutivo stabile, trasparente e responsabile, una magistratura indipendente e imparziale», è stata la dichiarazione congiunta. Un guanto di sfida. Così, dopo 21 anni di potere ininterrotto, seppure passando dalla carica di premier a quella di presidente, il Sultano rischia di essere detronizzato.

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Erdogan e Putin (Getty Images).

Il rapporto tra Erdogan e Putin, avversari-amici

La geopolitica può venire in soccorso di Erdogan con un triplice obiettivo: recuperare terreno nell’elettorato di casa, tutelare i propri interessi nello scenario geopolitico e ricostruire la propria reputazione agli occhi della Nato e perciò dell’intero Occidente. La Russia di Vladimir Putin è un “avversario-amico” per il leader di Ankara. In Siria, negli anni scorsi, è stato corso il rischio di uno scontro tra i due eserciti, lasciando presagire addirittura a uno scontro aperto, visto che la Turchia aveva interesse a controllare una fascia del territorio siriano, mentre il Cremlino sosteneva l’alleato Bashar al Assad nella controffensiva. Sarebbe stato un contatto diretto tra un Paese membro della Nato e la Russia. Successivamente, però, Erdogan e Putin si sono accordati e oggi Mosca fa da garante alla situazione militare in Siria. Ora l’attenzione di Ankara si è spostata sul Mar Nero dove si concentrano le mire del Cremlino intenzionato a mangiarsi gli sbocchi ucraini sul mare, da Mariupol a Odessa. Strangolando tra l’altro l’economia di Kyiv. Senza dimenticare la ripresa delle ostilità nel Nagorno Karabakh dove la Russia appoggia l’Armenia e la Turchia l’Azerbaigian.

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Volodymyr Zelensky e Recep Tayyp Erdogan a Kyiv a febbraio (Getty Images).

Perché al presidente turco la descalation in Ucraina conviene

I due però ormai si conoscono, nonostante le diffidenze reciproche. Del resto tra i due Paesi i rapporti economici sono proficui. Ma il presidente turco ha anche buone relazioni con l’omologo ucraino, Volodymyr Zelensky, tanto da avergli venduto i famigerati droni che stanno infliggendo pesanti perdite all’armata russa. Inutile girarci intorno: Erdogan ha tutto l’interesse a sovrintendere una de-escalation, che lo porterebbe di nuovo al centro della scena. Con grande apprezzamento dei leader europei già disposti a perdonargli il mancato rispetto dei diritti umani nel proprio Paese e ancora di più nella Siria del Nord. Così la guerra in Ucraina diventa un autentico affare per il Sultano, che vuole garantirsi l’opportunità di restare in sella per almeno altri cinque anni, riverito nell’ambito internazionale.

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