Il Sudan sta precipitando, sempre di più, in una spirale di violenza. La cronaca nuda e cruda racconta, giorno dopo giorno, dei feroci combattimenti in corso tra tra l’esercito sudanese (Saf) del generale e presidente del Paese, Abdel Fattah al-Burhan, e il gruppo paramilitare delle Forze di supporto rapido (Rsf) guidato da Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti. Eppure, dietro a questa guerra civile si nascondono gli interessi contrapposti delle grandi potenze globali – Russia, Cina, monarchie del Golfo, Turchia, Arabia Saudita ed Egitto – che monitorano la vicenda sperando di ottenere influenza e spazio d’azione in una nazione altamente strategica, in primis per la sua posizione geografica.

Il Sudan è incastonato tra il Sahel e il Corno d’Africa, ossia due regioni chiave per svariate questioni: dal traffico dei migranti al terrorismo, dall’energia allo sfruttamento delle risorse. Come se non bastasse, piantare una o più bandierine nei circa 700 chilometri di costa sudanese con vista Mar Rosso consentirebbe ai fortunati di mettere nel mirino il Mar Mediterraneo e l’Oceano Indiano, cioè due tra le rotte marittime militari e commerciali più ghiotte del XXI secolo.
Cina, 300 miliardi di dollari investiti nelle infrastrutture africane
Gli affari più grandi riguardano Pechino e Mosca. La Cina, uno dei più importanti finanziatori di progetti infrastrutturali nell’Africa sub-sahariana – con un investimento totale di 300 miliardi di dollari negli ultimi due decenni – risulta essere il principale partner commerciale del Sudan, dove operano oltre 120 aziende cinesi in vari settori e sono in gioco molteplici dossier che attirano l’attenzione del Dragone. La Russia, attraverso il gruppo Wagner, un appaltatore militare privato collegato al Cremlino, ha collezionato interessi nell’industria mineraria dell’oro sudanese – un materiale fondamentale per alleggerire il peso delle sanzioni occidentali in seguito al conflitto ucraino – e ha pure strappato una promessa dall’ex leader autocrate Omar al-Bashir per la costruzione di una base militare a Port Sudan. La guerra civile ha mescolato le carte in tavola. E adesso, per le potenze straniere, potrebbero presto aprirsi praterie da conquistare.

Il colpo di Stato nel 2021 e la lotta tra due fazioni
Chiunque voglia sfruttare la situazione in Sudan pro domo sua è chiamato a fare i conti con il presente. Ma come siamo arrivati fin qui? Nel 2021 l’esercito regolare sudanese e le Rsf hanno rovesciato il governo civile di al-Bashir con un colpo di Stato. Da quel momento in poi è salito al potere un consiglio di generali coordinato dai due militari, gli stessi che si trovano oggi al centro della guerra civile: al-Burhan ed Hemedti. E, sempre da quel preciso istante, nei meandri del Sudan hanno iniziato a ribollire numerose tensioni intestine, che sono emerse nel modo più estremo il 15 aprile 2023, quando i membri dell’Rsf sono stati distribuiti da Hemdeti in tutto il territorio nazionale, in una mossa che al-Burhan ha letto come una chiara minaccia. Le due fazioni si sono così accusate a vicenda su chi abbia sparato il primo colpo.

Morti 400 civili, fuga in massa di stranieri e diplomatici
Fatto sta che sono presto esplosi violenti combattimenti in diverse parti del Paese, che hanno causato la morte di oltre 400 civili e provocato la fuga in massa di ambasciate, operatori umanitari e cittadini stranieri. Oggetto della contesa tra Saf e Rsf: la diversa interpretazione di un piano sostenuto a livello internazionale per avviare una nuova transizione con partiti civili. L’esercito e i paramilitari avrebbero dovuto firmare un accordo e cedere il potere, ma sia la road map per l’integrazione delle Rsf nelle forze armate nazionali sia la tempistica per porre l’esercito sotto la supervisione civile hanno alimentato il disaccordo e impedito l’auspicata intesa. Il resto è storia presente.
Russia, miniere d’oro e il piano di una base militare
Nel 2017 Mosca ha negoziato una serie di accordi economici e di sicurezza con l’ex leader sudanese al-Bashir per facilitare la partnership tra Russia e Sudan. Due sono stati gli affari più rilevanti: lo sfruttamento delle miniere d’oro e la concessione di una base militare lungo la costa. Per quanto riguarda il primo punto, bisogna sottolineare che il via libera per l’estrazione dell’oro in Sudan è stato ottenuto da Meroe Gold, una società russa collegata a Yevgeny Prigozhin, capo e fondatore del gruppo Wagner, che opera localmente come società di copertura sudanese al-Solag. In pochi anni, l’azienda ha costruito una rete capace di estrarre e contrabbandare il prezioso materiale, così da rimpinguare le casse del Cremlino in un momento delicato.

Progetti con Mosca sospesi, anche per colpa degli Usa
L’altro tema è di natura militare. Alla fine del 2020, Mosca e Khartoum avevano raggiunto un accordo per stabilire una base navale russa a Port Sudan. La potenziale base avrebbe dovuto ospitare un centro logistico navale e un cantiere di riparazione, fino a 300 persone e quattro navi militari, comprese navi a propulsione nucleare. Nell’aprile 2021, l’allora governo di transizione sudanese ha però sospeso i piani, in parte anche a causa della pressione degli Stati Uniti. Dopo il colpo di Stato che ha rovesciato al-Bashir, il governo militare è apparso restio a rilanciare l’intesa con i russi, e la base resta al momento congelata.

Putin vuole pure costruire una centrale nucleare nel Paese
È lecito supporre che la Russia auspichi una risoluzione della crisi sudanese tale che la fazione vincente possa offrire a Mosca nuove concessioni minerarie e procedere con la costruzione dell’avamposto sul Mar Rosso. Certo è che a febbraio il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, è volato in Sudan, ha incontrato al-Burhan e avrebbe ottenuto rassicurazioni sul progetto militare. Si vocifera inoltre che l’agenzia atomica russa Rosatom sarebbe in trattative con il governo sudanese per la costruzione di una centrale nucleare nel Paese. Last but not least, mentre gli interessi in gioco spingerebbero la Federazione Russa a essere più vicina alle forze regolari di al-Burhan, allo stesso tempo la Wagner vanterebbe una maggiore vicinanza alle Rsf, che secondo alcuni armerebbe per combattere le Saf.

Pechino puntava forte sul petrolio, ma il quadro si è complicato
Durante il governo di al-Bashir, la Cina era il principale partner commerciale del Sudan. Da qui, per anni, Pechino ha importato la maggior parte del suo petrolio. La situazione è cambiata nel 2011, quando il Sud Sudan è diventato un Paese separato, “portando con sé” la maggior parte dei giacimenti petroliferi. Al Sudan sono però rimaste la maggior parte delle infrastrutture petrolifere – oleodotto, raffineria e porti – che Giuba, la capitale sud sudanese, ha continuato a pagare per l’utilizzo. In tutto questo la China National Petroleum Corporation (Cnpc) è rimasta il principale azionista del consorzio petrolifero operante in entrambe le nazioni. Va da sé che la guerra in Sudan ha innegabilmente danneggiato i piani economici cinesi.

Dal 2003 al 2010 i cinesi hanno prestato quasi 6 miliardi di dollari
Il Dragone ha sempre usato un approccio pragmatico e prudente, in linea con la sua politica estera, facendo attenzione a tutelare i suoi enormi interessi locali. In ogni caso, i legami sino-sudanesi si sono rafforzati negli Anni 90 grazie alla cooperazione legata al petrolio. In quel periodo, le entità cinesi firmarono accordi di esplorazione petrolifera nel 1994, mentre nel 1996 la Cnpc acquisì una partecipazione del 40 per cento in un consorzio petrolifero sudanese. Secondo il Danish Institute for International Studies, dal 2003 al 2010 la Cina ha prestato quasi 6 miliardi di dollari al Sudan, ma dal 2011 al 2018 la cifra è crollata a 143 milioni di dollari, di pari passo con il calo delle esportazioni petrolifere.

Accordi di cooperazione economica e tecnologica
In generale, dopo il rovesciamento di al-Bashir, la Repubblica popolare cinese ha sostenuto pubblicamente il governo di transizione sudanese, con l’obiettivo di proteggere i suoi collegamenti infrastrutturali nell’intera regione. A novembre 2022, Cina e Sudan hanno firmato accordi di cooperazione economica e tecnologica per un valore di quasi 17 milioni di dollari. Al netto delle cifre, l’interesse cinese nei confronti di questo Paese è però più geopolitico che commerciale. Pechino ha costruito il porto di Haidob seguito dallo scalo di Bushair e, attraverso molteplici aziende, controlla l’estrazione degli idrocarburi, il settore dell’energia idroelettrica, l’approvvigionamento idrico, logistica e agricoltura.

La navigazione sul Nilo e le risorse per il turismo del Mar Rosso
Ricordiamo poi che il Sudan è stato uno dei primi Paesi a diventare membro della Belt and Road Initiative cinese. Secondo gli accordi stipulati, Pechino pianificava la costruzione di una zona economica speciale e un centro di distribuzione merci. Intendeva inoltre migliorare la navigazione sul Nilo, liberare risorse per il turismo sul Mar Rosso e stava costruendo il nuovo aeroporto internazionale di Khartoum, oltre a infrastrutture di trasporto, un centro di navigazione satellitare e altre infrastrutture come Port Sudan e Swakin Harbour. In particolare, Port Sudan avrebbe dovuto servire gli interessi strategici della Cina, facilitando il Dragone nel trasporto delle materie prime, ma consentendo anche alla marina cinese di usare il porto per la sorveglianza e per un possibile, futuro blocco del traffico marittimo d’oltremare e d’altura.

Gli altri player in gioco: Emirati, Turchia, Egitto
Accanto agli interessi di Russia e Cina, in Sudan troviamo infine le mire di attori minori. Gli Emirati Arabi Uniti, per esempio, a dicembre hanno concluso un accordo il Sudan per lo sviluppo e la gestione del porto di Abu Amama, così come la Turchia ha messo nel mirino la costa sudanese per ottenere punti di appoggio. L’instabilità di Khartoum potrebbe poi privare l’Egitto, tradizionalmente un forte sostenitore dell’esercito sudanese, di un alleato chiave nella sua opposizione al progetto dell’Etiopia di costruire una gigantesca diga su un affluente del Nilo.

Arabia Saudita ed Emirati avevano infine stretto intensi legami con il capo delle Rsf Hemedti, dopo che quest’ultimo aveva accettato di inviare truppe a combattere nello Yemen, dove sono state attive anche le due potenze del Golfo. Ecco perché il futuro del Sudan, e della guerra che stra uccidendo il suo popolo, non passa soltanto dallo scontro tra l’esercito regolare e i paramilitari. In gioco ci sono attori e interessi molto più grandi.