Con Madreperla Guè si conferma il padrino del rap italiano

A due mesi dall'uscita, Madreperla ha fatto scattare la Guè-mania. Con riferimenti che vanno dagli Anni 80 alla G-Unit, dal pop alla dancehall passando per il dirty south, il rapper milanese è riuscito a non snaturarsi guardando però al futuro. Dai Club Dogo a Sanremo, è lui il Godfather dell'hip-hop nostrano.

Con Madreperla Guè si conferma il padrino del rap italiano

In testa alle classifiche, in copertina sulle riviste di moda, in tv a Sanremo dalla Costa Smeralda durante il festival, in rotazione su tutte le radio, pare che in Italia siano (finalmente) tutti impazziti per Guè Pequeno (ormai semplicemente Guè), al secolo Cosimo Fini, aka il “Godfather” del rap italiano. A poco più di un anno di distanza dal successo di Gvesvs e dal riuscitissimo mixtape Fastlife vol.4, il rapper milanese è tornato in pista, prendendosi ancora una volta la scena, con Madreperla, un disco mega hip-hop prodotto interamente da Bassi Maestro, altro nome tutelare del rap italiano old school e presentato in pompa magna con una Masterclass alla Triennale di Milano.

Così Guè Pequeno con il suo Madreperla è diventato un instant classic
Gue Pequeno e Bassi Maestro (da Instagram).

A due mesi dall’uscita Madreperla è già stato battezzato l’album perfetto di Guè

Per i fan, ma anche per la critica, Madreperla, a un paio di mesi dall’uscita, è già considerato l’album perfetto di Guè, un disco capace di scaldare i cuori degli intenditori e allo stesso tempo far breccia nelle nuove generazioni, sospeso com’è tra riferimenti che vanno dagli Anni 80 alla G-Unit, dal pop alla dancehall, da New York a LA passando per il dirty south. Nella storia dell’hip-hop il cosiddetto sample, ovvero quella tecnica compositiva che permette di registrare e integrare allinterno di un brano campioni (o sample) estratti da altre tracce musicali, ha da sempre fatto la parte del leone. Da quando DJ Kool Herc scoprì di poter scatenare le folle isolando i giri di batteria sui vinili di James Brown, lidea di reinventare la musica è sempre stata alla base della filosofia del movimento. Madreperla attinge a piene mani da questo concetto producendo una serie di tracce inedite, impreziosite dall’inconfondibile storytelling di Guè, che grazie al sapiente lavoro di Bassi Maestro, riportano in vita capolavori già esistenti. Una delle storie più interessanti legate ai brani presenti nel disco è sicuramente quella del brano intitolato Mi hai capito o no?, costruito sul celebre pezzo del 1981 del duo americano Hall & Oates, I can’t go for that, già campionato in precedenza da mostri sacri dell’hip-hop come i De La Soul nella loro Say and Go o rifatta splendidamente anni dopo dai Simply Red di Sunrise. Pochi sanno però che Ron nel 1983 fece una cover intitolata Hai capito o no? che ritroviamo pari pari nel ritornello della nuova versione rappata da Guè.

Così Guè Pequeno con Madreperla è diventato un classico
Gue Pequeno (da Instagram).

L’album si colloca tra il rap delle origini e quello del futuro

Il discorso prosegue con la hit Mollami pt.2, all’interno della quale c’è, oltre ad uno stilosissimo ed evidente omaggio all’artista giamaicano Ini Kamoze di Here Comes The Hotstepper, il mitico rullante a schiaffo presente in Return of the mack di Mark Morrison. Le references di una delle canzoni più radiofoniche presenti nel disco, Cookies and Cream, quella con Anna e Sfera Ebbasta che rappa come 50 Cent, sono invece Candy Shop prodotta nel 2005 da Dr Dre  e soprattutto Lean Back di Terror Sqaud, pezzo del 2004 fatto insieme a Fat Joe e Remy Ma. Particolarmente apprezzabile, infine, il lavoro svolto in Chiudi gli occhi, unico brano del disco co-prodotto da Bassi assieme a Dj Shablo, dove a essere omaggiato è uno dei brani più celebri dei Tiromancino, Amore impossibile del 2004. Tutto questo rende Madreperla un album davvero interessante intriso di cultura che si colloca perfettamente a proprio agio tra il rap delle origini e quello del futuro. Un instant classic che è già cult.

Da genere di nicchia a Sanremo e al Premio Tenco: l’ascesa del rap

Ma come ha fatto Guè ad arrivare di colpo a questo successo trasversale che lo ha reso uno dei rapper più rispettati in Italia? Sempre al passo con i tempi, sempre in prima fila quando si tratta di esplorare tematiche e sound, sempre in grado di reinventarsi stilisticamente, la carriera del “ragazzo d’oro” parte da lontano quando, assieme alla sua band, i Club Dogo, rivoluzionò il rap italiano (palcoscenico sul quale si erano appena riaccese le luci grazie al successo di Fabri Fibra con Tradimento, che nel 2006 resuscitò un genere ormai dato per morto e sepolto). «Rimo da quando le zarre si son messe le prime Buffalo/Da quando hanno sgamato il primo prete pedofilo», cantava Guè nel 2003, nel primo storico album dei Dogo, Mi Fist del 2003, inaugurando un tormentone che nel tempo è diventata la sua cifra stilistica, la barra più rappresentativa della sua discografia, presente in tantissimi progetti, solisti e non. Perché sì, Guè “rima da quando” il rap italiano non era esattamente considerato un genere cool, totalmente ostracizzato dalle radio e dal mondo delle major. All’epoca per esempio vedere un rapper in cima alle classifiche, sul palco di Sanremo o vedergli assegnato il Premio Tenco, come di recente è capitato a Marracash, era fantascienza pura. Poi c’è stata la rivoluzione digitale tra Internet, YouTube, le piattaforme di streaming come Spotify e la situazione è totalmente cambiata, diventando più democratica per così dire, e trasformando i rapper nelle nuove rockstar. Come scrive Giovanni Robertini su Rolling Stone, la figura di Guè è particolarmente significativa, poiché è uno dei pochi che riesce contemporaneamente a «essere regista e attore di un inedito film di genere, che paga debito di riconoscenza tanto allo spaghetti western quanto ai gangsta movie». Un personaggio che si appresta a diventare il Jay-Z italiano e che senza snaturarsi riesce a rimanere centrale nel panorama artistico e culturale della musica pop del nostro Paese.