Italian Horror Story

Guido Mariani
01/08/2021

Stamberghe maleodoranti. Delinquenti per le strade. Vipere stufate a cena. Sebbene pessime, le recensioni sul nostro Paese dei nobili europei impegnati nel Grand Tour non ne scalfirono il fascino. E non ci riuscirà nemmeno la pandemia.

Italian Horror Story

In un’Europa ancora in preda all’epidemia di Covid, viaggiare sembra tornato a essere un lusso per pochi. Un po’ per la paura di dover affrontare costose e imprevedibili quarantene o imbattersi in qualche nuova restrizione, un po’ per la scomodità di dover munirsi di green pass e autorizzazioni, si prediligono le vacanze in patria e il numero di viaggi all’estero è tragicamente calato.

La moda del Grand Tour e il fascino dell’Italia (nonostante tutto)

Se qualcuno dovesse pensare che l’Italia rischia di perdere il suo fascino per i viaggiatori stranieri farebbe comunque meglio a ricredersi. Ce lo dice il buonsenso, ma ce lo racconta soprattutto la storia. Le fortune turistiche e la vocazione all’accoglienza del Bel Paese risalgono infatti a un’epoca in cui l’Italia esisteva solo come idea astratta, ma il suo fascino era tale che i viaggiatori erano disposti ad affrontare pericoli e sfide ben più gravi di quelle che oggi propone la pandemia. Se i viaggi dei pellegrini erano una tradizione radicata già dal Medioevo, il turismo in Italia come lo conosciamo oggi nacque nel XVII secolo quando tra i giovani delle classi agiate dell’Europa, e in particolare tra i nobili e gli intellettuali inglesi si consolidò la moda del Grand Tour, un viaggio che il più delle volte aveva proprio l’Italia come meta finale e che doveva rappresentare un rito di passaggio per conoscere il mondo, entrare in contatto con l’esotico universo mediterraneo e le ricchezze artistiche e storiche della penisola.

Un pellegrinaggio laico che però poneva i protagonisti, spesso accompagnati da un tutore e da qualche domestico, a contatto con luoghi tutt’altro che ospitali. Dalle memorie e dalla corrispondenza dei viaggiatori appare come l’Italia affascinasse per le sue ricchezze, ma al contempo spaventasse per i suoi pericoli e per la scarsa qualità dei luoghi che ospitavano i pionieristici turisti. Abituati a palazzi della nobiltà e dell’alta borghesia e a frequentazioni altolocate, chi intraprendeva il Grand Tour doveva spesso far sosta in posti da incubo. Se l’accoglienza infatti nelle città principali andò via via migliorando nel corso del XVIII secolo, lo stesso non si poteva dire per le locande e le stazioni di posta al di fuori dei grandi centri.

Malattie veneree, sporcizia e animali: i soggiorni da incubo nel Bel Paese

Sono tante le testimonianze scritte di quelle avventure, molte delle quali sono state raccolte nei libri di Attilio Brilli, uno dei massimi storici italiani del viaggio. Fynes Moryson, uno dei primi britannici a documentare uno di questi tour, riferiva come fosse necessario abituarsi ai letti duri, ma soprattutto dormire vestiti di appositi lunghi camicioni per evitare di prendersi malattie veneree. Un altro suggerimento era quello di dormire con la propria spada al fianco. Tobias Smollett nella metà del ’700 entrò in Italia dalla Liguria, la riviera dei fiori non era certo quella di adesso: «Nella locanda di Sanremo», scrisse in Travels trough France and Italy, «c’era appena spazio per un paio di letti e un vecchio tavolo marcio coperto di fichi rinsecchiti. Le pareti erano drappeggiate di ragnatele e chiazzate di sudiciume di ogni genere, mentre l’impiantito non aveva assaggiato la scopa da almeno mezzo secolo». Spesso i posti letto erano dure tavole consunte o ampi letti pensati per ospitare più persone contemporaneamente. La ricca ereditiera settecentesca Anna Miller descriveva le pareti di una locanda nei pressi di Napoli “affrescate” con «sputi di tabacco e da sostanze che non oso nominare». Non restava che attrezzarsi, come suggeriva Henry Coxe nel suo Picture of Italy del 1815. Era necessario arieggiare le stanze, asciugare le lenzuola che spesso erano solo bagnate e non lavate, staccare le tende di eventuali baldacchini per evitare gli insetti, depurare l’acqua da bere con alcune gocce di vetriolo. Nei casi più disperati conveniva anche mettere le gambe del letto in vasi d’acqua per evitare l’arrampicarsi di rettili vari.

i pericoli in Italia per i turisti tra il 700 e l'800
Un ritratto di Goethe all’Antico Caffè Greco in via Condotti a Roma (Getty Images).

Vipere stufate e servizi igienici inesistenti

Ma anche il vitto riservava sorprese da film dell’orrore. Così scriveva a inizio ‘800 l’americano Washington Irving di una locanda di Terracina in un’area infestata dai banditi: «C’era un piatto che sembrava essere di anguille stufate, e un inglese ne mangiò con gran piacere. Ma rischiò di rimettere tutto quando gli dissero che erano vipere, catturate tra i sassi di Terracina e ritenute grandi delicatezze». Altre cronache riferiscono di zuppe maleodoranti e di piatti di vari animali striscianti, soprattutto lumache. Il pittoresco spesso si scontrava con il quotidiano, a Venezia, scriveva nel 1765 Edward Gibson ci sono «discariche puzzolenti che vengono degnate della pomposa definizione di canali». I servizi igienici erano infatti un tasto dolente, sempre che fossero contemplati. Sam Sharp, autore di Letters from Italy (1767), riferì che in molti luoghi di sosta la latrina non esisteva. Una delle prime tappe italiane di Wolfang Goethe nel settembre del 1786 fu una locanda a Torbole: «Avendo interrogato il padrone dell’albergo su un certo bisogno urgente», ricordava il poeta tedesco nel suo Viaggio in Italia, «costui mi indicò senz’altro il cortile: “Qui abbasso può servirsi”. “Dove?”, domandai. Ed egli, amabilmente: “Da per tutto, dove vuol”». C’era infine chi non si trovava a suo agio con la popolazione, fu il caso del poeta inglese Percy Bysshe Shelley che definì gli italiani «una tribù di schiavi stupidi e avizziti, e non penso di aver visto un solo barlume di intelligenza nel loro volto, da quando ho attraversato le Alpi». Ma nonostante questi giudizi, il fascino insopprimibile dell’Italia e del Gran Tour è sopravvissuto e cresciuto nel tempo. Non sarà certo oggi il colpo di coda di una pandemia a cancellarlo.