Le gambe pesanti e i tornanti su cui arrampicarsi. La solitudine delle crisi e l’esaltazione delle imprese, tra ali di folla festante. In uno stato di trance totale, condensato di fatica ed emozioni, che unisce i protagonisti in bicicletta e gli spettatori a bordo strada. Le grandi montagne sono l’essenza del Giro d’Italia, fatta di tante piccole e grandi storie. Una spiega al meglio cosa significhi affrontare questi giganti, spesso sopra i 2.000 metri di altitudine.
Gavia, il passo degli eroi in bicicletta
Le immagini, almeno quelle disponibili, arrivano dal 5 giugno 1988. Non serve sfidare la memoria del Dopoguerra per scorgere l’epica di quel giorno. Un uomo, in maglia ciclamino, a mezze maniche e gambe scoperte, in mezzo a una tormenta di neve. L’imprevedibile talento olandese Johan Van Der Velde, che incurante del gelo scollina in testa ai 2.621 metri di altitudine, la cima del Passo Gavia, senza testimonianza televisiva causa maltempo, dribblando – si dice – anche chi cerca di fermarlo, per dirgli che la corsa sarebbe stata neutralizzata. Le condizioni meteo sono troppo dure, anche per l’inflessibile organizzatore Vincenzo Torriani. La gara alla fine andrà avanti. E lì, più che la salita, su Van Der Velde, pallido e congelato, infierisce la discesa. È in un principio di assideramento, senza un’adeguata copertura avrebbe rischiato la vita. Molto meglio riscaldarsi, in qualche modo, e arrivare al traguardo di Bormio con oltre 47 minuti di ritardo dal vincitore, il suo connazionale Erik Breukink.
Da Coppi a Coppino: il mito del passo Pordoi
Ma questo è solo un pezzo del binomio da leggenda ciclismo-montagne. Le vette sono l’ornamento alle azioni dei fuoriclasse, che sfiniti e smagriti cercano di mettere metri di distanza tra loro e gli avversari. Alcune, per anni vengono escluse dal percorso, salvo tornare, ogni tanto, a garanzia di bellezza e memoria. Come il passo Pordoi, cornice degli attacchi di Fausto Coppi, e quest’anno, con i suoi 2.239 metri, cima più alta della corsa. Sulle sue rampe verticali battaglieranno i giovani terribili Bernal, Vlasov, Evenepoel.
Slike stare, bajkerske: Godine 1949 Giro d’Italia: Fausto Coppi na Passo Pordoi. pic.twitter.com/chqZPsCZAC
— Slobodan Milic (@milodan6) April 25, 2021
Ma il Pordoi è anche lo scenario che ha scolpito nella memoria collettiva l’impresa di Franco Chioccioli, Coppino, per la sua somiglianza al Campionissimo. In maglia rosa sferra un attacco irrazionale. Gli basterebbe amministrare il vantaggio, ma preferisce seguire l’istinto. L’azione fa sobbalzare gli appassionati, perché il ciclismo è innanzitutto fantasia, e quel trionfo assunse il sapore speciale del riscatto. È il 1991: Chioccioli vince il Giro cancellando il crollo sul Gavia dell’88, quando era in maglia rosa, con l’ambizione di indossarla fino alla fine. Sarà, invece, inghiottito dal freddo, tagliando tremante la linea di arrivo. Dicendo arrivederci ai sogni di vittoria.
Dal Mortirolo allo Zoncolan: le montagne “giovani”
Montagne che tornano, mentre altre vengono lasciate nel cassetto. Lo Stelvio lo scorso ottobre è stato scalato sfidando qualsiasi previsione climatica. Un incanto nello spettacolo sportivo, che quest’anno cede il passo ai lunghi e ripidi rettilinei del passo Fedaia, intervallati da qualche salvifico tornante. Ma la storia del Giro è fatta anche di scoperte recenti, si fa per dire. Il Mortirolo, terribile già dal nome, è stato scalato per la prima volta nel 1990. Un fenomeno ha reso memorabile quel muro di dodici chilometri: Marco Pantani. Il Pirata, nel 1994, svela al mondo la sua classe, attacca, sfrontato, un certo Miguel Indurain, gli infligge un pesante distacco.
Nel Giro 2021 le atroci pendenze del Mortirolo, saranno sostituite da quelle, altrettanto dure dello Zoncolan. I ciclisti a dovranno spingere la bicicletta su punte al 22 per cento, praticamente a rischio ribaltamento. Lo sa bene Gilberto Simoni, che nel 2003 scopre quella montagna inedita, piegandola alla sua tenacia.
Montagne all’esordio
I gradi di esordiente spetteranno, questa volta, alle salite di Sega di Ala, Alpe di Mera e Alpe di Motta, individuate come sede di arrivo di tappa. Montagne che hanno tutti i crismi per lasciare il segno e diventare cornice di nuovi racconti, di altre imprese epiche, magari del graffio vincente di Vincenzo Nibali. E soprattutto saranno testimoni della fatica di chi, alle spalle dei campioni, metro dopo metro è costretto a pedalare, lontano dai riflettori. Con lo sguardo rivolto al cronometro, perché le montagne non perdonano. E possono spedire a casa chi le fa attendere troppo.