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Il Giro d’Italia e il mito delle fughe bidone

Illustri sconosciuti capaci di imporsi o avvicinarsi alla vittoria finale, grazie ad attacchi sottovalutati dai big. Conquistando una montagna di minuti che condizionano la classifica generale. Dall’impresa storica di Clerici a quella più recente di Arroyo, quando nel Giro entra il fattore dell’imprevedibilità. Alla faccia delle tappe noiose.

13 Maggio 2023 12:46 Stefano Iannaccone
Il Giro d'Italia e il mito delle fughe bidone

Illustri sconosciuti o giù di lì capaci di imporsi al Giro d’Italia o comunque avvicinarsi alla vittoria finale, grazie ad attacchi ignorati dai big. Che nel lessico ciclistico diventano le “fughe bidone”, un drappello di corridori che va in avanscoperta, sottovalutato dal gruppo principale e conquista una montagna di minuti che condizionano la classifica generale. In tempi di discussione sulle “tappe noiose” in Rai, sull’asse Alessandro Fabretti-Beppe Conti, con un dibattito più noioso della (presunta) noia delle tappe sotto esame, l’almanacco della corsa rosa ricorda quegli episodi finiti dritti nella storia.

L’impresa storica di Carlo Clerici

Il nome che per primo viene in mente è quello di Carlo Clerici, italiano di origine ma nato e cresciuto in Svizzera, a Zurigo. Era il 1954, l’Italia aveva da poco scoperto la Radiotelevisione – la prima trasmissione è datata 3 gennaio – e il Giro d’Italia vide un trionfatore inatteso. Il buon Clerici si era presentato alla partenza con un palmares più scarno che mai, una vittoria a cronometro nel Gran premio della Svizzera, un terzo posto al Tour de Suisse, nel 1952, e il successo nella Lucerna-Engelberg. Fuori dalla federazione elvetica, mai niente. L’unico episodio che lo aveva reso celebre era un atto di gregariato, nel 1953, quando aiutò l’avversario di Fausto Coppi, un altro svizzero Hugo Koblet, soprannominato l’Angelo Biondo, a rientrare dopo una caduta. La sua squadra, la Welter, non la prese bene, escludendolo dalla corsa. Koblet però lo volle con sé, come scudiero, l’anno successivo. Solo che finì al contrario: nella sesta tappa, Napoli-L’Aquila, Clerici indovinò lo scatto che gli valse una carriera. Entrò nella fuga di giornata con il plotone che procedeva ad andatura compassata. Al traguardo Clerici vinse lo sprint su Nino Assirelli, unico compagno di fuga rimasto con lui, e guadagnò ben 34 minuti sul resto dei partecipanti. Una fuga bidone da manuale. Il paradosso fu la cancellazione di una precedente fuga bidone, nella tappa di Taormina, firmata da Giuseppe Minardi, conosciuto da tutti come Pipaza, lasciato partire senza che nessuno gli prestasse attenzione. Era uno scalatore imprevedibile e avrebbe potuto anche provare a salvare il bottino di vantaggio. Ma andò diversamente.

Il Giro d'Italia e il mito delle fughe bidone
Carlo Clerici nel 1954.

Tra Pipaza prima e Clerici poi i favoriti, da Fausto Coppi a Koblet, pensarono di potersi comunque contendere la vittoria sulle grandi montagne che sarebbero arrivate di lì a poco. Ma, motivato dalla maglia rosa, Clerici seppe sfioderare una strenua resistenza. Della sua dote di vantaggio perse una decina di minuti in tutto, sfruttando il lavoro di un gregario d’eccezione come l’Angelo Biondo e lo sciopero bianco sul valico del Bernina che il gruppo affrontò lentamente in segno di protesta per questioni economiche. Una salvezza per lo svizzero che scansò il pericolo peggiore, ossia una scalata con vetta a oltre 2.300 metri di altitudine, arrivando a Milano in rosa con un vantaggio di 24 minuti su Koblet, di 26 minuti su Assirelli, giunto sul podio, e su Coppi, appena quarto, staccato di oltre mezz’ora. Da quella fuga bidone Clerici tornò nell’oblio, conquistando appena un 12esimo posto al Tour de France dello stesso anno, lontanissimo dalle posizioni di vetta. Nel palmares inserì altre gare minori. La più prestigiosa fu il Gp di Zurigo. Ma poco conta: è il ciclista della più importante fuga bidone della storia.

Il Giro d'Italia e il mito delle fughe bidone
Giuseppe Minardi detto il Pipaza.

Nel 2010 si ricorda ancora la tenuta di David Arroyo

In tempi molto più recenti, nel 2010, ci fu un’altra fuga bidone. In quale tappa? Quella con arrivo a L’Aquila, voluta come traguardo dopo la tragedia del terremoto. Un gruppo di 56 ciclisti prese il largo, mentre la maglia rosa, Alexander Vinoukurov, non mise la squadra a tirare anche perché aveva poche pedine. Il vantaggio aumentò a dismisura, vinse il russo Evgenij Petrov, e i migliori arrivarono con 12 minuti e 40 secondi di ritardo, tra cadute e ritiri. La classifica generale fu stravolta con l’australiano Richie Porte, al primo anno da professionista, che si trovò in maglia rosa nonostante il distacco accumulato. Ma il nome che emerse fu quello dello spagnolo David Arroyo, reduce da un ottavo posto nel Giro d’Italia precedente e da una decima posizione nel 2007. Lo scalatore, nel successivo arrivo ad Asolo, riuscì a tenere bene, approfittando della crisi di Porte e conquistando il primato. Con un vantaggio di oltre 3 minuti sul favorito Ivan Basso iniziava a sognare il colpaccio. La sua tenuta fu eroica sul Monte Zoncolan dove riuscì a contenere il distacco. Dovette cedere sulle tappa dell’Aprica, quando sulle rampe del Mortirolo, Basso dimostrò la propria superiorità. Arroyo difese comunque la seconda posizione nelle successive tappe alpine e nell’ultima cronometro dall’assalto di un giovanissimo Vincenzo Nibali. Fu una fuga bidone che segnò comunque quel Giro d’Italia. Perché la corsa rosa, con buona pace delle prediche sulla noia, trascina con sé l’X-Factor dell’imprevedibilità.

LEGGI ANCHE: Giro d’Italia, la sfida delle cronometro cucita su Evenepoel

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