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Il Giorno del ricordo tra revisionismo e manipolazione politica

La tragedia delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata non va certo dimenticata. Ma occorre contestualizzarla storicamente, liberandola da incrostazioni ideologiche e revisionismi. Magari riconoscendo finalmente la violenza fascista nella ex Jugoslavia. Purtroppo, ancora oggi, l’impresa sembra impossibile.

10 Febbraio 2023 09:1214 Febbraio 2023 10:05 Marco Fraquelli
Il Giorno del ricordo tra revisionismo e manipolazione politica

Si celebra oggi il cosiddetto Giorno del ricordo, istituito da una legge (la n. 92 del 30 marzo 2004) con la quale lo Stato italiano decise di promuovere ufficialmente il ricordo della data simbolo del 10 febbraio 1947, giorno legato alla tragedia delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, seguito alla firma del Trattato di pace di Parigi tra l’Italia e le potenze alleate. Con la celebrazione del ricordo, si riaprono però le consuete polemiche che, dal 2004 a oggi, hanno accompagnato questo anniversario. Per la verità, anche in virtù di una narrazione di stampo revisionista che, va detto, fa a pugni con ogni ragionevole contestualizzazione storica. Intendiamoci, quella delle foibe fu vera tragedia, ma per comprenderne la portata occorrerebbe una più serena valutazione in riferimento alla sua contestualizzazione anziché un approccio puramente ideologico con la quale viene rappresentata, e che ha portato a definirla nientemeno che la nostra Shoah (copyright di Matteo Salvini, 10 febbraio 2019).

LEGGI ANCHE: L’esodo giuliano e Sergio Endrigo

Il balletto dei numeri

A favorire questa percezione “ipertrofica” della vicenda, il balletto dei numeri a proposito delle vittime, perché, in mancanza di un serio e approfondito studio, si è lasciato campo libero a chiunque di sparare cifre a caso. L’esempio forse più eclatante è quello di Maurizio Gasparri che, nel 2004, mentre era ministro delle Comunicazioni, a una trasmissione radiofonica, parlò di un milione di vittime. Mentre, dopo decenni di ricerche approfondite, gli specialisti del tema concordano su cifre del tutto più contenute (forse un migliaio, al netto di tutte le altre migliaia di morti, civili compresi, che, in quelle zone e in quel concitato momento, caddero vittime della violenza incrociata fra partigiani titini, soldati italiani, civili e collaborazionisti serbi). Naturalmente non è sulla quantità che si misura una tragedia, da questo punto di vista nessuno può disconoscere la drammaticità di quanto accaduto, ma la contestualizzazione storica va sempre e comunque considerata. E possibilmente rispettata.

Si celebra oggi il cosiddetto Giorno del ricordo, istituito da una legge (la n. 92 del 30 marzo 2004) con la quale lo Stato italiano decise di promuovere ufficialmente il ricordo della data simbolo del 10 febbraio 1947, giorno legato alla tragedia delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, seguito alla firma del Trattato di pace di Parigi tra l’Italia e le potenze alleate. Con la celebrazione del ricordo, si riaprono però le consuete polemiche che, dal 2004 a oggi, hanno accompagnato questo anniversario. Per la verità, anche in virtù di una narrazione di stampo revisionista che, va detto, fa a pugni con ogni ragionevole contestualizzazione storica. Intendiamoci, quella delle foibe fu vera tragedia, ma per comprenderne la portata occorrerebbe una più serena valutazione in riferimento alla sua contestualizzazione anziché un approccio puramente ideologico con la quale viene rappresentata, e che ha portato a definirla nientemeno che la nostra Shoah (copyright di Matteo Salvini, 10 febbraio 2019). Il balletto dei numeri A favorire questa percezione "ipertrofica" della vicenda, il balletto dei numeri a proposito delle vittime, perché, in mancanza di un serio e approfondito studio, si è lasciato campo libero a chiunque di sparare cifre a caso. L’esempio forse più eclatante è quello di Maurizio Gasparri che, nel 2004, mentre era ministro delle Comunicazioni, a una trasmissione radiofonica, parlò di un milione di vittime. Mentre, dopo decenni di ricerche approfondite, gli specialisti del tema concordano su cifre del tutto più contenute (forse un migliaio, al netto di tutte le altre migliaia di morti, civili compresi, che, in quelle zone e in quel concitato momento, caddero vittime della violenza incrociata fra partigiani titini, soldati italiani, civili e collaborazionisti serbi). Naturalmente non è sulla quantità che si misura una tragedia, da questo punto di vista nessuno può disconoscere la drammaticità di quanto accaduto, ma la contestualizzazione storica va sempre e comunque considerata. E possibilmente rispettata. Le violenze fascista in Jugoslavia In questo senso è importante chiarire meglio i contorni della italianizzazione forzata dei territori jugoslavi irredenti (che prevedeva addirittura l’adozione della lingua italiana come lingua ufficiale), iniziata con la fine della Prima Guerra mondiale, e che si era accentuata con il fascismo, all’indomani dell’occupazione della Jugoslavia (1941), una occupazione che, impropriamente definita "allegra", termine che la pubblicistica revisionista ha utilizzato per alimentare il mito dell’italiano tutto sommato comprensivo e non violento, si rivelerà invece cruenta e repressiva. Il risultato delle violenze fasciste è impressionante: oltre 13 mila sloveni e croati morti nei lager in territorio italiano; non meno di 2.500 civili e partigiani fucilati sul posto, cioè durante azioni belliche; 1.500 civili fucilati dopo l’internamento, per stanare le bande partigiane o per vendetta contro azioni verso i nostri militari; quasi 200 morti per sevizie e torture. E questo solo nella provincia di Lubiana. La mancata Norimberga italiana Peraltro, e per contro, va anche sottolineato come nessuno dei protagonisti delle violenze fasciste in Slovenia sia mai stato perseguito, disattendendo le aspettative jugoslave per una "Norimberga italiana". Il principale protagonista, il generale Mario Roatta, fu, in effetti, processato, ma per la sua implicazione nell’omicidio dei fratelli Rosselli, e comunque riuscì a fuggire, con la complicità dei carabinieri (al cui comando in quel periodo c’era Taddeo Orlando, anch’egli militare fascista in Slovenia), in Vaticano e quindi nella Spagna franchista, da dove tornò, amnistiato, nel 1966, per morire due anni dopo, dopo aver fondato il cosiddetto Noto servizio, conosciuto anche come l’Anello, un servizio segreto clandestino che ha attraversato la storia italiana almeno fino ai tardi Anni 70 del secolo scorso, e la cui vita si è intrecciata con le pagine più oscure della nostra storia, dal Golpe Borghese alle stragi di Piazza Fontana e Piazza della Loggia al caso Moro. Nessuna conseguenza anche per Mario Robotti, il "grande deportatore" di Lubiana e molti altri ancora. Revisionismo a colpi di fiction Tutto questo, comprese le responsabilità britanniche nel processo di occultamento, è talmente noto che la Bbc produsse, nel 1989, Fascist Legacy, un documentario estremamente approfondito sia sui crimini di guerra italiani in Africa che nei Balcani, sia sulla loro impunità successiva. Fascist Legacy, trasmesso da molte televisioni del mondo, fu acquistato nel 1991 anche dalla Rai, ma mai trasmesso. In compenso, la Rai ha co-prodotto, e trasmesso, due film: Il cuore nel pozzo, 2005, e Rosso Istria (trasmesso da Rai2 anche ieri sera), entrambi smaccatamente revisionisti e addirittura propagandistici, promotori di una tesi vittimistica e assolutoria che presenta un’Istria divisa tra i buoni e innocenti cattolici italiani e cattivi e feroci atei slavi, mentre una violenza improvvisa e immotivata si abbatte sui poveri italiani. Ma se Il cuore nel pozzo si limita a parlare, appunto, di italiani vittime del comunismo slavo, Rosso Istria va oltre: vittime della violenza sono i fascisti, che indossano la camicia nera, invocano il Duce e affidano le loro speranza ai bravi nazisti perché giungano a portare la pace laddove i comunisti hanno portato la guerra. La sinistra complice e gli svarioni istituzionali Di fronte a queste mistificazioni revisioniste, verrebbe da chiedersi dove stia la sinistra. Sicuramente stava dalla parte dei revisionisti quando passò la Legge del 2004. La norma, infatti, venne approvata anche con il sostegno dagli allora capigruppo dei Ds e della Margherita, Luciano Violante e Willer Bordon. E a nulla valsero le numerose proteste di molti storici e personalità della sinistra, che avrebbero invece voluto caso mai farla precedere da una apposita commissione d’inchiesta. Forse, come ha ricordato Adamo Mastrangelo, già segretario dei Comunisti Italiani, perché si è preferito assecondare e appoggiare il disegno revisionista con un obiettivo di «di auto-purificazione dagli avvenimenti e dalle ideologie del ‘900». E questo spiegherebbe anche l’improvvida uscita di Giorgio Napolitano che, da presidente della Repubblica, era il 10 febbraio 2007, arrivò a dichiarare che le foibe rappresentarono «un momento di odio, di furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica» (tesi peraltro ripresa anche da Sergio Mattarella nel 2020), suscitando le rimostranze ufficiali del Presidente croato Stipe Mesic, e rischiando un vero e proprio incidente diplomatico tra i due Paesi. Ricordare è doveroso ma senza manipolazioni politiche e ideologiche Meglio ha fatto il predecessore di Napolitano, Carlo Azeglio Ciampi, Presidente in carica quando la Giornata venne istituita, che ebbe sempre l’accortezza, in varie occasioni, di sottolineare come pur nella doverosa esecrazione dei massacri nazifascisti e delle vendette titine, ogni episodio andava contestualizzato storicamente. Che è, in fondo, quello che si vorrebbe: non l’oblio, ma un ricordo scevro da ogni ideologismo e manipolazione politica. Senza, per questo, dover essere tacciati di tracotanza accademica, concupiscenza, mitomania. Come è successo a Tomaso Montanari, rettore dell’Università di Siena, che, solo per aver organizzato, nel febbraio 2022, un convegno dal titolo "Uso politico della memoria e revanscismo fascista: la genesi del Giorno del Ricordo", si è beccato gli strali di Aldo Grasso, per il quale la contrapposizione tra Foibe e Shoah è del tutto speciosa, perché le due tragedie sono «pur sempre parte di quell’ideologia di purificazione etnica che imbianca tutti i sepolcri del mondo». Forse, ad Aldo Grasso e molti altri bisognerebbe ricordare le parole di Boris Pahor, protagonista, non certo comunista, di quelle vicende, che sosteneva come tirare in ballo gli infoibati, vittime degli jugoslavi, è un modo fuorviante di trattare la storia, perché certamente le barbarie commesse da sloveni e croati, alla fine della Seconda Guerra mondiale, sono dati di fatto, «ma non lavano né annullano le atrocità commesse dai fascisti contro di noi, anni prima».
La foiba di Basovizza.

Le violenze fasciste in Jugoslavia

In questo senso è importante chiarire meglio i contorni della italianizzazione forzata dei territori jugoslavi irredenti (che prevedeva addirittura l’adozione della lingua italiana come lingua ufficiale), iniziata con la fine della Prima Guerra mondiale, e che si era accentuata con il fascismo, all’indomani dell’occupazione della Jugoslavia (1941), una occupazione che, impropriamente definita “allegra”, termine che la pubblicistica revisionista ha utilizzato per alimentare il mito dell’italiano tutto sommato comprensivo e non violento, si rivelerà invece cruenta e repressiva. Il risultato delle violenze fasciste è impressionante: oltre 13 mila sloveni e croati morti nei lager in territorio italiano; non meno di 2.500 civili e partigiani fucilati sul posto, cioè durante azioni belliche; 1.500 civili fucilati dopo l’internamento, per stanare le bande partigiane o per vendetta contro azioni verso i nostri militari; quasi 200 morti per sevizie e torture. E questo solo nella provincia di Lubiana.

Si celebra oggi il cosiddetto Giorno del ricordo, istituito da una legge (la n. 92 del 30 marzo 2004) con la quale lo Stato italiano decise di promuovere ufficialmente il ricordo della data simbolo del 10 febbraio 1947, giorno legato alla tragedia delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, seguito alla firma del Trattato di pace di Parigi tra l’Italia e le potenze alleate. Con la celebrazione del ricordo, si riaprono però le consuete polemiche che, dal 2004 a oggi, hanno accompagnato questo anniversario. Per la verità, anche in virtù di una narrazione di stampo revisionista che, va detto, fa a pugni con ogni ragionevole contestualizzazione storica. Intendiamoci, quella delle foibe fu vera tragedia, ma per comprenderne la portata occorrerebbe una più serena valutazione in riferimento alla sua contestualizzazione anziché un approccio puramente ideologico con la quale viene rappresentata, e che ha portato a definirla nientemeno che la nostra Shoah (copyright di Matteo Salvini, 10 febbraio 2019). Il balletto dei numeri A favorire questa percezione "ipertrofica" della vicenda, il balletto dei numeri a proposito delle vittime, perché, in mancanza di un serio e approfondito studio, si è lasciato campo libero a chiunque di sparare cifre a caso. L’esempio forse più eclatante è quello di Maurizio Gasparri che, nel 2004, mentre era ministro delle Comunicazioni, a una trasmissione radiofonica, parlò di un milione di vittime. Mentre, dopo decenni di ricerche approfondite, gli specialisti del tema concordano su cifre del tutto più contenute (forse un migliaio, al netto di tutte le altre migliaia di morti, civili compresi, che, in quelle zone e in quel concitato momento, caddero vittime della violenza incrociata fra partigiani titini, soldati italiani, civili e collaborazionisti serbi). Naturalmente non è sulla quantità che si misura una tragedia, da questo punto di vista nessuno può disconoscere la drammaticità di quanto accaduto, ma la contestualizzazione storica va sempre e comunque considerata. E possibilmente rispettata. Le violenze fascista in Jugoslavia In questo senso è importante chiarire meglio i contorni della italianizzazione forzata dei territori jugoslavi irredenti (che prevedeva addirittura l’adozione della lingua italiana come lingua ufficiale), iniziata con la fine della Prima Guerra mondiale, e che si era accentuata con il fascismo, all’indomani dell’occupazione della Jugoslavia (1941), una occupazione che, impropriamente definita "allegra", termine che la pubblicistica revisionista ha utilizzato per alimentare il mito dell’italiano tutto sommato comprensivo e non violento, si rivelerà invece cruenta e repressiva. Il risultato delle violenze fasciste è impressionante: oltre 13 mila sloveni e croati morti nei lager in territorio italiano; non meno di 2.500 civili e partigiani fucilati sul posto, cioè durante azioni belliche; 1.500 civili fucilati dopo l’internamento, per stanare le bande partigiane o per vendetta contro azioni verso i nostri militari; quasi 200 morti per sevizie e torture. E questo solo nella provincia di Lubiana. La mancata Norimberga italiana Peraltro, e per contro, va anche sottolineato come nessuno dei protagonisti delle violenze fasciste in Slovenia sia mai stato perseguito, disattendendo le aspettative jugoslave per una "Norimberga italiana". Il principale protagonista, il generale Mario Roatta, fu, in effetti, processato, ma per la sua implicazione nell’omicidio dei fratelli Rosselli, e comunque riuscì a fuggire, con la complicità dei carabinieri (al cui comando in quel periodo c’era Taddeo Orlando, anch’egli militare fascista in Slovenia), in Vaticano e quindi nella Spagna franchista, da dove tornò, amnistiato, nel 1966, per morire due anni dopo, dopo aver fondato il cosiddetto Noto servizio, conosciuto anche come l’Anello, un servizio segreto clandestino che ha attraversato la storia italiana almeno fino ai tardi Anni 70 del secolo scorso, e la cui vita si è intrecciata con le pagine più oscure della nostra storia, dal Golpe Borghese alle stragi di Piazza Fontana e Piazza della Loggia al caso Moro. Nessuna conseguenza anche per Mario Robotti, il "grande deportatore" di Lubiana e molti altri ancora. Revisionismo a colpi di fiction Tutto questo, comprese le responsabilità britanniche nel processo di occultamento, è talmente noto che la Bbc produsse, nel 1989, Fascist Legacy, un documentario estremamente approfondito sia sui crimini di guerra italiani in Africa che nei Balcani, sia sulla loro impunità successiva. Fascist Legacy, trasmesso da molte televisioni del mondo, fu acquistato nel 1991 anche dalla Rai, ma mai trasmesso. In compenso, la Rai ha co-prodotto, e trasmesso, due film: Il cuore nel pozzo, 2005, e Rosso Istria (trasmesso da Rai2 anche ieri sera), entrambi smaccatamente revisionisti e addirittura propagandistici, promotori di una tesi vittimistica e assolutoria che presenta un’Istria divisa tra i buoni e innocenti cattolici italiani e cattivi e feroci atei slavi, mentre una violenza improvvisa e immotivata si abbatte sui poveri italiani. Ma se Il cuore nel pozzo si limita a parlare, appunto, di italiani vittime del comunismo slavo, Rosso Istria va oltre: vittime della violenza sono i fascisti, che indossano la camicia nera, invocano il Duce e affidano le loro speranza ai bravi nazisti perché giungano a portare la pace laddove i comunisti hanno portato la guerra. La sinistra complice e gli svarioni istituzionali Di fronte a queste mistificazioni revisioniste, verrebbe da chiedersi dove stia la sinistra. Sicuramente stava dalla parte dei revisionisti quando passò la Legge del 2004. La norma, infatti, venne approvata anche con il sostegno dagli allora capigruppo dei Ds e della Margherita, Luciano Violante e Willer Bordon. E a nulla valsero le numerose proteste di molti storici e personalità della sinistra, che avrebbero invece voluto caso mai farla precedere da una apposita commissione d’inchiesta. Forse, come ha ricordato Adamo Mastrangelo, già segretario dei Comunisti Italiani, perché si è preferito assecondare e appoggiare il disegno revisionista con un obiettivo di «di auto-purificazione dagli avvenimenti e dalle ideologie del ‘900». E questo spiegherebbe anche l’improvvida uscita di Giorgio Napolitano che, da presidente della Repubblica, era il 10 febbraio 2007, arrivò a dichiarare che le foibe rappresentarono «un momento di odio, di furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica» (tesi peraltro ripresa anche da Sergio Mattarella nel 2020), suscitando le rimostranze ufficiali del Presidente croato Stipe Mesic, e rischiando un vero e proprio incidente diplomatico tra i due Paesi. Ricordare è doveroso ma senza manipolazioni politiche e ideologiche Meglio ha fatto il predecessore di Napolitano, Carlo Azeglio Ciampi, Presidente in carica quando la Giornata venne istituita, che ebbe sempre l’accortezza, in varie occasioni, di sottolineare come pur nella doverosa esecrazione dei massacri nazifascisti e delle vendette titine, ogni episodio andava contestualizzato storicamente. Che è, in fondo, quello che si vorrebbe: non l’oblio, ma un ricordo scevro da ogni ideologismo e manipolazione politica. Senza, per questo, dover essere tacciati di tracotanza accademica, concupiscenza, mitomania. Come è successo a Tomaso Montanari, rettore dell’Università di Siena, che, solo per aver organizzato, nel febbraio 2022, un convegno dal titolo "Uso politico della memoria e revanscismo fascista: la genesi del Giorno del Ricordo", si è beccato gli strali di Aldo Grasso, per il quale la contrapposizione tra Foibe e Shoah è del tutto speciosa, perché le due tragedie sono «pur sempre parte di quell’ideologia di purificazione etnica che imbianca tutti i sepolcri del mondo». Forse, ad Aldo Grasso e molti altri bisognerebbe ricordare le parole di Boris Pahor, protagonista, non certo comunista, di quelle vicende, che sosteneva come tirare in ballo gli infoibati, vittime degli jugoslavi, è un modo fuorviante di trattare la storia, perché certamente le barbarie commesse da sloveni e croati, alla fine della Seconda Guerra mondiale, sono dati di fatto, «ma non lavano né annullano le atrocità commesse dai fascisti contro di noi, anni prima».
La commemorazione di CasaPound a Milano nel 2018 (Getty Images).

La mancata Norimberga italiana

Peraltro, e per contro, va anche sottolineato come nessuno dei protagonisti delle violenze fasciste in Slovenia sia mai stato perseguito, disattendendo le aspettative jugoslave per una “Norimberga italiana“. Il principale protagonista, il generale Mario Roatta, fu, in effetti, processato, ma per la sua implicazione nell’omicidio dei fratelli Rosselli, e comunque riuscì a fuggire, con la complicità dei carabinieri (al cui comando in quel periodo c’era Taddeo Orlando, anch’egli militare fascista in Slovenia), in Vaticano e quindi nella Spagna franchista, da dove tornò, amnistiato, nel 1966, per morire due anni dopo, dopo aver fondato il cosiddetto Noto servizio, conosciuto anche come l’Anello, un servizio segreto clandestino che ha attraversato la storia italiana almeno fino ai tardi Anni 70 del secolo scorso, e la cui vita si è intrecciata con le pagine più oscure della nostra storia, dal Golpe Borghese alle stragi di Piazza Fontana e Piazza della Loggia al caso Moro. Nessuna conseguenza anche per Mario Robotti, il “grande deportatore” di Lubiana e molti altri ancora.

Si celebra oggi il cosiddetto Giorno del ricordo, istituito da una legge (la n. 92 del 30 marzo 2004) con la quale lo Stato italiano decise di promuovere ufficialmente il ricordo della data simbolo del 10 febbraio 1947, giorno legato alla tragedia delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, seguito alla firma del Trattato di pace di Parigi tra l’Italia e le potenze alleate. Con la celebrazione del ricordo, si riaprono però le consuete polemiche che, dal 2004 a oggi, hanno accompagnato questo anniversario. Per la verità, anche in virtù di una narrazione di stampo revisionista che, va detto, fa a pugni con ogni ragionevole contestualizzazione storica. Intendiamoci, quella delle foibe fu vera tragedia, ma per comprenderne la portata occorrerebbe una più serena valutazione in riferimento alla sua contestualizzazione anziché un approccio puramente ideologico con la quale viene rappresentata, e che ha portato a definirla nientemeno che la nostra Shoah (copyright di Matteo Salvini, 10 febbraio 2019). Il balletto dei numeri A favorire questa percezione "ipertrofica" della vicenda, il balletto dei numeri a proposito delle vittime, perché, in mancanza di un serio e approfondito studio, si è lasciato campo libero a chiunque di sparare cifre a caso. L’esempio forse più eclatante è quello di Maurizio Gasparri che, nel 2004, mentre era ministro delle Comunicazioni, a una trasmissione radiofonica, parlò di un milione di vittime. Mentre, dopo decenni di ricerche approfondite, gli specialisti del tema concordano su cifre del tutto più contenute (forse un migliaio, al netto di tutte le altre migliaia di morti, civili compresi, che, in quelle zone e in quel concitato momento, caddero vittime della violenza incrociata fra partigiani titini, soldati italiani, civili e collaborazionisti serbi). Naturalmente non è sulla quantità che si misura una tragedia, da questo punto di vista nessuno può disconoscere la drammaticità di quanto accaduto, ma la contestualizzazione storica va sempre e comunque considerata. E possibilmente rispettata. Le violenze fascista in Jugoslavia In questo senso è importante chiarire meglio i contorni della italianizzazione forzata dei territori jugoslavi irredenti (che prevedeva addirittura l’adozione della lingua italiana come lingua ufficiale), iniziata con la fine della Prima Guerra mondiale, e che si era accentuata con il fascismo, all’indomani dell’occupazione della Jugoslavia (1941), una occupazione che, impropriamente definita "allegra", termine che la pubblicistica revisionista ha utilizzato per alimentare il mito dell’italiano tutto sommato comprensivo e non violento, si rivelerà invece cruenta e repressiva. Il risultato delle violenze fasciste è impressionante: oltre 13 mila sloveni e croati morti nei lager in territorio italiano; non meno di 2.500 civili e partigiani fucilati sul posto, cioè durante azioni belliche; 1.500 civili fucilati dopo l’internamento, per stanare le bande partigiane o per vendetta contro azioni verso i nostri militari; quasi 200 morti per sevizie e torture. E questo solo nella provincia di Lubiana. La mancata Norimberga italiana Peraltro, e per contro, va anche sottolineato come nessuno dei protagonisti delle violenze fasciste in Slovenia sia mai stato perseguito, disattendendo le aspettative jugoslave per una "Norimberga italiana". Il principale protagonista, il generale Mario Roatta, fu, in effetti, processato, ma per la sua implicazione nell’omicidio dei fratelli Rosselli, e comunque riuscì a fuggire, con la complicità dei carabinieri (al cui comando in quel periodo c’era Taddeo Orlando, anch’egli militare fascista in Slovenia), in Vaticano e quindi nella Spagna franchista, da dove tornò, amnistiato, nel 1966, per morire due anni dopo, dopo aver fondato il cosiddetto Noto servizio, conosciuto anche come l’Anello, un servizio segreto clandestino che ha attraversato la storia italiana almeno fino ai tardi Anni 70 del secolo scorso, e la cui vita si è intrecciata con le pagine più oscure della nostra storia, dal Golpe Borghese alle stragi di Piazza Fontana e Piazza della Loggia al caso Moro. Nessuna conseguenza anche per Mario Robotti, il "grande deportatore" di Lubiana e molti altri ancora. Revisionismo a colpi di fiction Tutto questo, comprese le responsabilità britanniche nel processo di occultamento, è talmente noto che la Bbc produsse, nel 1989, Fascist Legacy, un documentario estremamente approfondito sia sui crimini di guerra italiani in Africa che nei Balcani, sia sulla loro impunità successiva. Fascist Legacy, trasmesso da molte televisioni del mondo, fu acquistato nel 1991 anche dalla Rai, ma mai trasmesso. In compenso, la Rai ha co-prodotto, e trasmesso, due film: Il cuore nel pozzo, 2005, e Rosso Istria (trasmesso da Rai2 anche ieri sera), entrambi smaccatamente revisionisti e addirittura propagandistici, promotori di una tesi vittimistica e assolutoria che presenta un’Istria divisa tra i buoni e innocenti cattolici italiani e cattivi e feroci atei slavi, mentre una violenza improvvisa e immotivata si abbatte sui poveri italiani. Ma se Il cuore nel pozzo si limita a parlare, appunto, di italiani vittime del comunismo slavo, Rosso Istria va oltre: vittime della violenza sono i fascisti, che indossano la camicia nera, invocano il Duce e affidano le loro speranza ai bravi nazisti perché giungano a portare la pace laddove i comunisti hanno portato la guerra. La sinistra complice e gli svarioni istituzionali Di fronte a queste mistificazioni revisioniste, verrebbe da chiedersi dove stia la sinistra. Sicuramente stava dalla parte dei revisionisti quando passò la Legge del 2004. La norma, infatti, venne approvata anche con il sostegno dagli allora capigruppo dei Ds e della Margherita, Luciano Violante e Willer Bordon. E a nulla valsero le numerose proteste di molti storici e personalità della sinistra, che avrebbero invece voluto caso mai farla precedere da una apposita commissione d’inchiesta. Forse, come ha ricordato Adamo Mastrangelo, già segretario dei Comunisti Italiani, perché si è preferito assecondare e appoggiare il disegno revisionista con un obiettivo di «di auto-purificazione dagli avvenimenti e dalle ideologie del ‘900». E questo spiegherebbe anche l’improvvida uscita di Giorgio Napolitano che, da presidente della Repubblica, era il 10 febbraio 2007, arrivò a dichiarare che le foibe rappresentarono «un momento di odio, di furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica» (tesi peraltro ripresa anche da Sergio Mattarella nel 2020), suscitando le rimostranze ufficiali del Presidente croato Stipe Mesic, e rischiando un vero e proprio incidente diplomatico tra i due Paesi. Ricordare è doveroso ma senza manipolazioni politiche e ideologiche Meglio ha fatto il predecessore di Napolitano, Carlo Azeglio Ciampi, Presidente in carica quando la Giornata venne istituita, che ebbe sempre l’accortezza, in varie occasioni, di sottolineare come pur nella doverosa esecrazione dei massacri nazifascisti e delle vendette titine, ogni episodio andava contestualizzato storicamente. Che è, in fondo, quello che si vorrebbe: non l’oblio, ma un ricordo scevro da ogni ideologismo e manipolazione politica. Senza, per questo, dover essere tacciati di tracotanza accademica, concupiscenza, mitomania. Come è successo a Tomaso Montanari, rettore dell’Università di Siena, che, solo per aver organizzato, nel febbraio 2022, un convegno dal titolo "Uso politico della memoria e revanscismo fascista: la genesi del Giorno del Ricordo", si è beccato gli strali di Aldo Grasso, per il quale la contrapposizione tra Foibe e Shoah è del tutto speciosa, perché le due tragedie sono «pur sempre parte di quell’ideologia di purificazione etnica che imbianca tutti i sepolcri del mondo». Forse, ad Aldo Grasso e molti altri bisognerebbe ricordare le parole di Boris Pahor, protagonista, non certo comunista, di quelle vicende, che sosteneva come tirare in ballo gli infoibati, vittime degli jugoslavi, è un modo fuorviante di trattare la storia, perché certamente le barbarie commesse da sloveni e croati, alla fine della Seconda Guerra mondiale, sono dati di fatto, «ma non lavano né annullano le atrocità commesse dai fascisti contro di noi, anni prima».
Il generale Mario Roatta (Getty Images).

Revisionismo a colpi di fiction

Tutto questo, comprese le responsabilità britanniche nel processo di occultamento, è talmente noto che la Bbc produsse, nel 1989, Fascist Legacy, un documentario estremamente approfondito sia sui crimini di guerra italiani in Africa che nei Balcani, sia sulla loro impunità successiva. Fascist Legacy, trasmesso da molte televisioni del mondo, fu acquistato nel 1991 anche dalla Rai, ma mai trasmesso. In compenso, la Rai ha co-prodotto, e trasmesso, due film: Il cuore nel pozzo, 2005, e Rosso Istria (trasmesso da Rai2 anche ieri sera), entrambi smaccatamente revisionisti e addirittura propagandistici, promotori di una tesi vittimistica e assolutoria che presenta un’Istria divisa tra i buoni e innocenti cattolici italiani e cattivi e feroci atei slavi, mentre una violenza improvvisa e immotivata si abbatte sui poveri italiani. Ma se Il cuore nel pozzo si limita a parlare, appunto, di italiani vittime del comunismo slavo, Rosso Istria va oltre: vittime della violenza sono i fascisti, che indossano la camicia nera, invocano il Duce e affidano le loro speranza ai bravi nazisti perché giungano a portare la pace laddove i comunisti hanno portato la guerra.

La sinistra complice e gli svarioni istituzionali

Di fronte a queste mistificazioni revisioniste, verrebbe da chiedersi dove stia la sinistra. Sicuramente stava dalla parte dei revisionisti quando passò la Legge del 2004. La norma, infatti, venne approvata anche con il sostegno dagli allora capigruppo dei Ds e della Margherita, Luciano Violante e Willer Bordon. E a nulla valsero le numerose proteste di molti storici e personalità della sinistra, che avrebbero invece voluto caso mai farla precedere da una apposita commissione d’inchiesta. Forse, come ha ricordato Adamo Mastrangelo, già segretario dei Comunisti Italiani, perché si è preferito assecondare e appoggiare il disegno revisionista con un obiettivo di «di auto-purificazione dagli avvenimenti e dalle ideologie del ‘900». E questo spiegherebbe anche l’improvvida uscita di Giorgio Napolitano che, da presidente della Repubblica, era il 10 febbraio 2007, arrivò a dichiarare che le foibe rappresentarono «un momento di odio, di furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica» (tesi peraltro ripresa anche da Sergio Mattarella nel 2020), suscitando le rimostranze ufficiali del Presidente croato Stipe Mesic, e rischiando un vero e proprio incidente diplomatico tra i due Paesi.

Pahor e la denuncia degli orrori fascisti in Slovenia
Boris Pahor nel 2009 (Getty Images).

Ricordare è doveroso ma senza manipolazioni politiche e ideologiche

Meglio ha fatto il predecessore di Napolitano, Carlo Azeglio Ciampi, Presidente in carica quando la Giornata venne istituita, che ebbe sempre l’accortezza, in varie occasioni, di sottolineare come pur nella doverosa esecrazione dei massacri nazifascisti e delle vendette titine, ogni episodio andava contestualizzato storicamente. Che è, in fondo, quello che si vorrebbe: non l’oblio, ma un ricordo scevro da ogni ideologismo e manipolazione politica. Senza, per questo, dover essere tacciati di tracotanza accademica, concupiscenza, mitomania. Come è successo a Tomaso Montanari, rettore dell’Università di Siena, che, solo per aver organizzato, nel febbraio 2022, un convegno dal titolo “Uso politico della memoria e revanscismo fascista: la genesi del Giorno del Ricordo”, si è beccato gli strali di Aldo Grasso, per il quale la contrapposizione tra Foibe e Shoah è del tutto speciosa, perché le due tragedie sono «pur sempre parte di quell’ideologia di purificazione etnica che imbianca tutti i sepolcri del mondo». Forse, ad Aldo Grasso e molti altri bisognerebbe ricordare le parole di Boris Pahor, protagonista, non certo comunista, di quelle vicende, che sosteneva come tirare in ballo gli infoibati, vittime degli jugoslavi, è un modo fuorviante di trattare la storia, perché certamente le barbarie commesse da sloveni e croati, alla fine della Seconda Guerra mondiale, sono dati di fatto, «ma non lavano né annullano le atrocità commesse dai fascisti contro di noi, anni prima».

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