Si celebra oggi il Giorno della Memoria, istituito in Italia nel 2000, e poi in tutto il mondo a partire dal 2005, per commemorare i quasi 17 milioni di morti, tra cui quasi sei milioni di ebrei, vittime, tra il 1933 e il 1945, della furia genocida nazifascista. Uno sterminio ricordato come Olocausto (o Shoah, con riferimento prevalente allo sterminio degli ebrei). La data non è casuale, corrisponde infatti al giorno di 68 anni fa (era il 27 gennaio del 1945) in cui i cancelli di Auschwitz-Birkenau, il campo assurto a simbolo dell’intera tragedia, furono abbattuti dalla 60esima armata dell’esercito sovietico. Nel campo, i liberatori trovarono “solo” circa 9 mila prigionieri, perlopiù malati o totalmente esausti, perché dall’inizio di gennaio le SS ne avevano fatti evacuare altri 60 mila. Di questi, si stima che tra i nove e i 15 mila morirono durante il tragitto, in gran parte uccisi dalle stesse SS perché, indeboliti dalla denutrizione e dalle terribili condizioni di costrizione e di lavoro forzato, non riuscivano a reggere i ritmi incessanti della marcia imposta.

Tra partecipazione, retorica e polemica
Come tutte le commemorazioni (istituzionali o meno che siano), anche il Giorno della Memoria non ha potuto evitare, quasi ogni anno, che, alla partecipazione commossa e sentita e al ricordo vivido, si accompagnassero anche motivi di discussione, persino polemica, complice – questo va detto – un po’ di retorica che, come sempre, accompagna manifestazioni di questo genere. E che, non sempre, rende piena rappresentazione a un fenomeno così storicamente pregnante come l’Olocausto. Finendo per smorzare, nell’immaginario collettivo, la doverosa tensione per comprendere, oltreché ricordare, un fenomeno storico così complesso nella sua drammaticità. A volte è sorta anche qualche polemica, frutto, soprattutto, dei distinguo e persino di qualche reticenza espressi – in qualche caso in maniera anche strumentale – a proposito degli sfortunati protagonisti della tragedia. Per dirla in termini un po’ brutali, spesso ci si è contrapposti su chi dovesse essere considerato più vittima delle altre, come se la tragedia andasse analizzata in termini quantitativi più che qualitativi.
Non solo ebrei
Da questo punto di vista, per esempio, molti contestano che, nella sua vulgata dominante, l’Olocausto venga qualificato, di fatto, come esclusivo appannaggio degli ebrei, mentre sappiamo che molti altri, dai rom agli omosessuali agli oppositori politici del nazifascismo subirono la stessa terribile sorte. Nessuno, sia chiaro, mette in discussione il terribile tributo di vite umane offerto purtroppo dalle persone di religione ebraica; nessuno, da questo punto di vista, vuole depotenziare la tragedia vissuta dagli ebrei, ma semplicemente dare spazio e visibilità anche ad altre minoranze colpite. Perché l’Olocausto è stato, purtroppo, anche una tragedia qualitativa oltreché quantitativa. Questo, tra l’altro, potrebbe giovare proprio al Giorno della Memoria, perché, a lungo andare, a furia di essere commemorato come tragedia tutto sommato relativa a un soggetto prevalente anziché come tragedia collettiva, rischia davvero di alimentare quella tendenza generale a considerare come un “già sentito” ciò che è accaduto, come ha detto giorni fa la senatrice Liliana Segre, che ha sottolineato come «la gente già da anni dice “basta con questi ebrei, che cosa noiosa, ormai lo sappiamo”».

Il caso italiano dei deportati politici
Le diverse istituzioni, va detto, sono state molto attente nel rispettare la natura per così dire omnicomprensiva della tragedia. La legge 211, che in Italia, il 20 luglio 2000, ha istituito la Giornata, in questo senso, è esemplare. Nel primo dei suoi due articoli, la definizione è netta: la commorazione riguarda non soltanto la Shoah, ma anche le leggi razziali fasciste, e «tutti gli italiani, ebrei e non, che sono stati uccisi, deportati e imprigionati, e di tutti coloro che si sono opposti alla “soluzione finale” voluta dai nazisti, spesso rischiando la vita». Ciò non ha tuttavia impedito che alle vittime appartenenti alle “minoranze” si sia, e venga oggi, dedicato pochissimo spazio commemorativo a livello istituzionale. Dario Venegoni, giornalista, scrittore, presidente dell’ANED, l’Associazione nazionale degli ex deportati nei campi nazisti, ricordava per esempio ieri, su Domani, come nel nostro Paese la narrazione pubblica dell’Olocausto si concentri quasi esclusivamente sulla Shoah, dimenticando i deportati politici antifascisti.

Una triste contabilità e le responsabilità fasciste
Venegoni cita numeri incontrovertibili: «Gli italiani deportati nei campi gestiti dalle SS furono circa 40 mila. Circa 8 mila furono gli ebrei… Gli altri, oltre 30 mila, non erano ebrei; vennero bollati in grandissima maggioranza dai loro carnefici come “politici”. Erano a vario titolo oppositori del fascismo e del nazismo… Nei campi furono uccisi circa 7 mila ebrei e circa 10.500 “politici”…». Eppure, dice Venegoni, sembra che la cultura italiana abbia rimosso questo tema, e non per caso. Per il presidente dell’ANED si tratta di una damnatio memoriae alimentata ad arte da chi (vedi la destra) ha tutta la convenienza, enfatizzando la questione ebraica, a distinguere le responsabilità del regime di Mussolini prima e dopo le leggi razziali (1938), per sostenere che furono sì un terribile errore, ma senza inficiare la ormai classica narrazione del Mussolini che fece anche cose buone. In realtà, ricorda sempre Venegoni, le leggi razziali non furono un fulmine a ciel sereno: nel ‘38 molti antifascisti avevano già scontato molti anni di carcere, erano già stati uccisi Don Minzoni, Giacomo Matteotti, Giovanni Amendola, i fratelli Rosselli e altre centinaia di oppositori. Bene, dunque, che Giorgia Meloni si commuova ricordando le vittime del razzismo fascista, ma «sarebbe lecito attendersi però una parola di solidarietà anche per gli oltre 5 mila uomini e donne condannati dal Tribunale Speciale; per le decine di fucilati – fucilati, sì – dal regime di Mussolini; per le decine di migliaia di connazionali che i fascisti braccarono e arrestarono prima di consegnarli agli alleati nazisti, nei lager».

Un caso esemplare: Gianluigi Banfi e la resistenza milanese
Solo un esempio per capire a cosa si riferisce Dario Venegoni, quello, molto poco noto, dell’architetto Gianluigi Banfi, morto di privazioni e stenti, a soli 35 anni, il 10 aprile 1945 nel campo di Mauthausen, dove era stato rinchiuso l’anno precedente. Banfi, originario di Caravaggio, in provincia di Bergamo, laureatosi al Politecnico di Milano nel 1932, aveva poi fondato, con Lodovico Barbiano Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers, lo storico studio di architettura e urbanistica BBPR, che diverrà punto di riferimento per l’architettura razionalista italiana (a loro si deve, per esempio, il progetto della celebre Torre Velasca di Milano e quello del Palazzo delle poste dell’Eur). A partire dall’emanazione delle leggi razziali del 1938, e poi durante il periodo di occupazione nazifascista, lo studio divenne anche uno dei punti di riferimento per la Resistenza milanese. Mentre l’ebreo Rogers dovette nascondere la propria partecipazione, Banfi, con Belgiojoso e Perassutti partecipò alla fondazione di Giustizia e Libertà e in seguito al Comitato di Liberazione Nazionale. Avvicinatosi, nel 1942, al Partito d’Azione, l’architetto Banfi venne arrestato con Belgiojoso. Condannati senza processo alla deportazione con l’accusa di spionaggio e distribuzione di stampa clandestina, vennero internati dapprima nel carcere di San Vittore, quindi furono tradotti a Fossoli, poi a Bolzano e infine a Mauthausen, dove, come detto, Banfì morì pochi giorni prima della Liberazione. Forse, dare più visibilità anche a vicende come questa potrebbe servire a rivitalizzare davvero il ricordo della tragedia che colpì l’Europa negli anni della follia nazifascista, e la gente, forse, si “annoierebbe” meno.
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