Agli albori il giornalismo online si cullava su un adagio che tutti davano per acquisito e immutabile: «In Rete vincono i contenuti». Lo scambio con le prime piattaforme sembrava win-win: traffico (e monetizzazione) in cambio di notizie e contenuti appunto. Poi sono arrivati due fattori chiave a scombussolare i piani e a sconvolgere il rapporto tra le testate digitali e gli utenti: gli algoritmi e la creator economy. Due recenti casi hanno mostrato in modo emblematico come l’informazione web, almeno da sola, non paghi: Vice e Buzzfeed. Il primo è passato dai sensazionali reportage nell’autoproclamato Stato islamico in Siria e Iraq alla bancarotta. Il secondo è caduto dalle stelle del premio Pulitzer per il racconto dei lager cinesi in cui era rinchiusa la minoranza musulmana alle stalle della chiusura, dopo 12 anni, della sezione news.

La pubblicità fagocitata dalle grandi piattaforme
Cosa è successo? E cosa sta succedendo al panorama mediatico digitale, soprattutto nei Paesi avanzati? Jonah Peretti, fondatore di Buzzfeed, se l’è presa con la pandemia, con la crisi della pubblicità e la «concorrenza nel settore tecnologico». Eppure ci si era illusi che proprio il Covid, con le restrizioni e la necessità per i cittadini di raccogliere informazioni mentre stavano chiusi in casa, potesse favorire una rifioritura dei media online attendibili e di qualità. In realtà il fenomeno si è dimostrato una bolla passeggera: con il ritorno alla vita normale si è tornati alle abitudini di prima, molte Dot-com hanno dovuto rivedere i faraonici piani di investimento e le crisi d’impresa hanno iniziato a fioccare dalle parti della Silicon Valley (e non solo). La verità è che le grandi piattaforme, Google e Meta in testa, non portano ma drenano via pubblicità, la divorano. Sono diventate concorrenti sul mercato e hanno disinvestito sul giornalismo. Il dominio di pochi giganti nella giungla destrutturata della Rete fa male agli organi di stampa sul web. Le fonti di contenuti degli utenti si sfarinano, si polverizzano, mentre gli algoritmi creano agende e percorsi quotidiani di informazione perfettamente profilati sul singolo consumatore, immettendolo in un “tunnel cognitivo” dal quale esce sempre meno e sempre meno è disposto a deragliare. A prescindere, spesso, dall’attendibilità delle stesse fonti e delle news fruite. Le testate, allora, provano a modificare gerarchie e criteri di notiziabilità pur di intercettare questo traffico, ma finiscono a volte per snaturarsi, per perdere in termini di credibilità e soccombono alla logica del “nemico” che le sta spolpando.

La creator economy solo in Italia sfiora i 300 milioni di euro
Prima, almeno, i giornali online avevano la primazia sui contenuti. Poi sono arrivati i social media ed è sbocciata un’economia di creatori che, osservano gli esperti, è diventata attrattiva per le piattaforme, soprattutto in ragione dell’immediatezza, della capacità di coinvolgere e di creare una relazione forte, diretta, fidelizzante con specifiche community verticali: quello che manca alla stragrande maggioranza delle testate digitali strutturate. È il trionfo dei “personal media” che non sono incarnati solo da profili Twitch, Instagram o TikTok, ma sono anche podcast e newsletter. È un po’ la logica del vecchio blog, se vogliamo, ma potenziata e aggiornata ai tempi del web 4.0. La creator economy conta ormai qualcosa come 300 milioni di professionisti nel mondo. Solo in Italia le persone attive sono oltre 350 mila tra streamer, youtuber, podcaster e influencer, per un giro d’affari complessivo che sfiora i 300 milioni di euro. Un settore in enorme espansione, tanto che si pensa a una regolamentazione con un codice Ateco specifico. Per il giornalismo online è entrato quindi in crisi il mutuo scambio con le piattaforme (grossolanamente, traffico vs contenuti). I rapporti di forza sono ormai sbilanciati, tanto che persino la testata più prestigiosa del mondo, il New York Times, ha dovuto accontentarsi delle briciole da Google, 100 milioni di dollari in tre anni, in cambio delle sue notizie. Poca roba, se si considera che il Nyt fattura 2,3 miliardi annui. E ancora meno dei 100 milioni all’anno che il colosso di Mountain View liquida alla News Corp di Rupert Murdoch, editore di corazzate come il Wall Street Journal o il New York Post, oltre che di altri giornali in Gran Bretagna e Australia.

Facebook e Twitter sono in affanno
Insomma, è vero che c’è sempre bisogno di contenuti, ma è cambiato lo scenario di chi li genera e il meccanismo di fruizione. Oggi vince la creator economy che, con qualche strumento professionale in più, diventa quello che un tempo si definiva citizen journalism. A ciò si aggiunge l’affanno di alcune delle piattaforme, che non veicolano più come prima. Per esempio Facebook: il modello di business mostra la corda, i giovani lo disertano e i licenziamenti (perfezionati o anche solo annunciati) si susseguono. Il quarto trimestre del 2022 ha fatto registrare un calo dei ricavi del 4 per cento e il traguardo dei 2 miliardi di iscritti è stato più sudato del previsto. Anche Twitter soffre nelle mani di Elon Musk e, in generale, appare in crisi lo schema del social basato sull’interazione peer to peer tra gli utenti, anche per le complesse regolazioni burocratiche e normative da applicare. Mentre spopolano le piattaforme che forniscono contenuti preconfezionati sulla base di algoritmi. Basti citare il caso dei creatori di Instagram, Mike Krieger e Kevin Systrom, che hanno lasciato Meta e ci stanno provando con Artifact, un feed personalizzato che utilizza l’intelligenza artificiale per la diffusione di articoli e notizie d’attualità.

Anche il canale degli abbonamenti stenta a decollare
Dunque, il serbatoio della pubblicità è prosciugato, ma non tira nemmeno il canale degli abbonamenti. Reuters Institute spiega che sono in pochi a pagare un canone mensile o annuale fisso per leggere le notizie digitali: il 13 per cento in Italia, ancora meno nel resto d’Europa. Si sta tentando allora la strada della monetizzazione per il clic sulla singola news: vuole provarci Musk su Twitter, benché lo strumento dei micropagamenti per l’informazione non abbia pregressi incoraggianti. La tool britannica Axate, per esempio, stenta ancora a decollare. In più, dopo il boom della prima fase pandemica, un po’ il ritorno alle attività normali e un po’ la prudente revisione dei consumi in favore di quelli considerati essenziali, in ragione dell’iper inflazione, hanno tarpato le ali al mercato digitale dei servizi media. Non a caso, secondo gli ultimi dati del Censis, è vero che gli utenti italiani dei quotidiani online sono aumentati l’anno scorso del 4,7 per cento sul 2021, ma è una quota comunque di molto inferiore a quanti utilizzano siti web generici di informazione (33 per cento contro il 58,1). Mentre l’Osservatorio Digital content della School of management del Politecnico di Milano ci dice che, sì, nel Bel Paese la spesa dei consumatori in contenuti digitali d’informazione e intrattenimento ha superato nel 2022 i 3,3 miliardi di euro, con un +12 per cento sul 2021, tuttavia il settore news & ebook è lievitato appena del 2 per cento con una quota “cenerentola” a 164 milioni. Così, il paradosso è che l’informazione professionale online arranca malgrado gli italiani utilizzino internet soprattutto per tenersi informati (il 72 per cento degli intervistati secondo il report Digital 2023 di We Are Social/Meltwater).
Le sfide e le incognite dell’Intelligenza artificiale
Allora le news stanno diventando un lusso? Una vetrina che, magari, viene mantenuta in perdita o pagata con altri servizi? Ecco che molte realtà editoriali cedono alla tentazione di utilizzare le notizie come strumento di advocacy e di lobbying, possibilmente affiancandole con publiredazionali o interi notiziari verticali a pagamento. O ancora con forme più strutturate di brand journalism. E poi costruiscono una filiera produttiva parallela, tipica dell’agenzia, proponendo quindi servizi di comunicazione, produzioni audio-video, creazione e gestione di eventi o addirittura spazi di e-commerce e community management. Tutto ciò, mentre all’orizzonte balena la prospettiva dell’intelligenza artificiale conversazionale che forse un giorno, chissà, sostituirà gli operatori dell’informazione. Siamo vicini a un giornalismo senza testate: arriveremo a un giornalismo senza più neppure giornalisti? Magari è solo una distopia, ma a pensar male… spesso si indovina.