Tra Fratelli d’Italia e Alleanza Nazionale il governo Meloni nasce sulla scia di una vera e propria ibridazione. Una fratellanza nazionale, potremmo dire, in cui gli esponenti del partito maggioritario del centrodestra sono nettamente separati in due anime.
Tra generazione Atreju ed ex colonnelli di An
Da un lato ci sono gli entusiasti membri della Generazione Atreju: gli ex ragazzi di Azione Universitaria e Azione Giovani formatisi tra gli Anni 90 e 2000 nella militanza di base a partire dalle università e dei circoli, spesso di periferia e soprattutto romani. Una storia che unisce figure come il neo ministro dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida, cognato di Meloni, e lo stratega della presidente del Consiglio, Giovanbattista Fazzolari, entrambi 50enni, a giovani deputati alla prima esperienza cresciuti nell’alveo meloniano (tra cui Chiara Colosimo e Augusta Montaruli).
Dall’altro c’è la carica dei “grandi vecchi”, dei sussurratori spesso nell’ombra e dei consiglieri che fanno riferimento a un’altra epoca della Destra italiana, quella espressa da Alleanza Nazionale. Vi fanno parte gli artefici e i protagonisti del passaggio dal Movimento Sociale Italiano ad An, del superamento del post-fascismo e, soprattutto, della serie di compromessi su cui i figli di Atreju si sono spesso divisi perché spesso letti come tradimento della causa. Non Meloni che non a caso ha dato ampio spazio alla componente ex aennina come conferma la scelta di candidare un politico navigato come Ignazio La Russa alla presidenza del Senato.

Nella squadra di governo poi si ritrova un’An in purezza: da Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy con cinque legislature alle spalle, un passato nel Msi con esperienze in tutte le declinazioni della destra compresa Futuro e Libertà, a Daniela Santanché titolare del Turismo, ex An e coordinatrice lombarda di FdI. Lo stesso si può dire di Nello Musumeci, ex presidente della Regione Siciliana, per nove anni alla guida della Provincia di Catania (1994-2003) rappresentando il Msi prima e An poi. Meno noto ma non meno incisivo, e già cruciale per Fdi, Luca Ciriani, ministro ai Rapporti con il Parlamento che seguì come Urso e Musumeci Gianfranco Fini a Fiuggi per poi entrare in FdI nel 2012. Per non parlare di colonnelli come Maurizio Leo, papabile di un posto di sottogoverno all’Economia e tornato alla carica dopo l’era An, Roberto Menia, già deputato An, amico intimo di Fini, senatore e responsabile del dipartimento degli italiani nel Mondo per Fratelli d’Italia e Riccardo De Corato, tornato a Roma dopo gli anni da assessore alla Sicurezza in Lombardia.
Il ruolo cruciale di Alfredo Mantovano
Meloni del resto ha di fronte a sé due sfide: guidare un partito plasmato a sua immagine e somiglianza e guidare un governo in cui saranno necessari compromessi complicati. Non sarà più solo Giorgia, la combattiva figlia della Garbatella e di Colle Oppio, ma “il” presidente Meloni. Ragion per cui il ritorno in campo degli ex An appare quasi fisiologico. «La vecchia guardia è garanzia di capacità amministrativa», è il ragionamento che si fa nei circoli di FdI, soprattutto nelle regioni che hanno visto una crescita esponenziale del partito. Esperienza che agli esponenti di FdI più giovani, che si sono formati più nella lotta che nel governo, ancora manca o deve essere messa alla prova. Non a caso, Meloni ha voluto a fianco a sé come sottosegretario alla Presidenza, con possibile delega ai Servizi, Alfredo Mantovano, un numero due – come Giorgetti per la Lega e Gianni Letta per Forza Italia – in grado di gestire i dossier più spinosi come la partita delle nomine primaverili, da Eni a Leonardo, da Enel a Poste. Il piatto è ricco e Meloni sa che su questo tema si gioca una fetta grossa di istituzionalizzazione della sua area politica. Secondo molti la nomina di Mantovano sarebbe stata addirittura suggerita da Gianfranco Fini.

Fini e il filo diretto con Meloni
Dalle parti di Fdi raccontano che nonostante gli screzi al tramonto dell’era berlusconiana, il filo tra Fini e Meloni non si sia mai spezzato. Tra i due c’è un lungo e consolidato rapporto: Fini, del resto, può rivendicare di essere stato il primo ad aver creduto in Meloni, come tra l’altro ha ricordato il 4 ottobre scorso in una chiacchierata informale con la stampa estera rompendo un silenzio di anni. Dalle parole ai fatti: fu lui a nominarla coordinatrice del comitato nazionale di reggenza di Azione Giovani nel 2001, trampolino di lancio della sua ascesa; nel 2006 la candidò nelle file di An alla Camera e dopo le elezioni la spinse come vicepresidente di Montecitorio a soli 29 anni. Due anni dopo perorò la sua causa come ministro della Gioventù nel governo Berlusconi IV. E ora può essere visto come un garante dell’europeismo, dell’atlantismo e del ripudio del fascismo della neo premier.