Sta facendo rumore la condanna espressa – si potrebbe dire ribadita, dato che lo aveva già fatto in altra sede – da parte di una commossa Giorgia Meloni nei confronti delle leggi razziali, durante la cerimonia al museo ebraico di Roma per la festa dell’Hanukkah. Le parole della presidente del Consiglio, che ha parlato di «ignominia delle leggi razziali» e di resilienza del popolo ebraico nonostante le atrocità sofferte, hanno ricevuto il pieno apprezzamento di Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica nella Capitale, la quale ha sottolineato come quelle parole aiutino a mettere a tacere le ambiguità sul fascismo (sebbene alla definizione di Meloni manchi sempre un «pezzo», perché si tratta sì di leggi razziali, ma di leggi razziali fasciste).
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Il precedente di Fini e le accuse che gli arrivarono da destra
Prima di Meloni, era toccato a Gianfranco Fini, allora leader di Alleanza nazionale, condannare le leggi razziali come «male assoluto del XX secolo»; lo aveva fatto, nel 2003, davanti al Muro del pianto di Gerusalemme. Allora, i media attribuirono il giudizio di Fini, per estensione, al fascismo stesso, e forse anche per questo le sue dichiarazioni suscitarono un vespaio di polemiche all’interno dell’universo post-fascista. Sul forum di An si scatenò per esempio un furibondo dibattito, anche oltre la contestualità delle dichiarazioni del leader. «Ti abbiamo visto con la kippah viola tirata fuori dalla tasca di destra della giacca», scriveva emblematicamente un certo Pongo, «parli di voto agli immigrati, annulli il sacrificio degli uomini della Rsi… ma quando comincerai a raccontarci qualcosa di destra?». E così via, tra chi condannava l’uscita di Fini (molti), e chi, invece, si diceva d’accordo con lui (pochi). Mentre Alessandra Mussolini lasciava il partito, sbattendo la porta, perché si era creata una vera incompatibilità col suo cognome.

Fascismo e antisemitismo: no ad analisi superficiali e buoniste
Al di là delle questioni «interne» alla destra, non c’è dubbio che le parole dei giorni scorsi della premier abbiano riacceso un faro sull’annosa questione dei rapporti tra fascismo e antisemitismo. Rapporto che, in sede storiografica e non solo, è stato ovviamente molto studiato, ma con esiti non sempre lineari e unanimi. Si potrebbe dire, semplificando molto, che, dal Dopoguerra a oggi, si sono contrapposti, di fatto, due tipi di analisi: una più superficiale (di stampo più giornalistico che storico) e «buonista», l’altra più approfondita e scientifica (cioè storiografica in senso vero). Esemplare, per il primo caso, è un testo di Antonio Spinosa del 2000, Mussolini razzista riluttante, in cui il giornalista sostiene, in estrema sintesi, che il Duce si decise a varare le leggi razziali nel 1938 in seguito alla visita di Adolf Hitler a Roma. Come se il razzismo e l’antisemitismo non appartenessero, fino in fondo, alla intima natura fascista, alla visione del mondo fascista. Ma fosse, in qualche modo, riconducibile alla necessità di adeguarsi alla visione del mondo dell’alleato nazista.

La defascistizzazione retroattiva del fascismo: capostipite Montanelli
Si tratta di una versione in qualche modo edulcorata, che si inserisce a pieno titolo nella produzione di quel gruppo di giornalisti – capostipite Indro Montanelli col suo Buonuomo Mussolini del 1947, e via via Mario Cervi, Arrigo Petacco, Giordano Bruno Guerri e altri, fino al caso limite delle mistificazioni, per usare un eufemismo, di Gianpaolo Pansa – dei quali lo storico Emilio Gentile, discepolo di Renzo de Felice (non esattamente un bolscevico), scrisse che hanno concorso a una sorta di «defascistizzazione retroattiva del fascismo», presentandolo in maniera «alquanto indulgente, se non proprio benevola: una vicenda più comica che tragica, una sorta di istrionica farsa di simulazione collettiva, recitata per 20 anni dagli italiani».

Il vento dell’odio contro gli ebrei soffiava anche in Italia
Per fortuna, alla narrazione tutto sommato benevola di questi giornalisti prestati alla storia, fa da contraltare una ormai sempre più copiosa pubblicistica storiografica che, al contrario, ha, in maniera scientifica, studiato il fenomeno e ne presenta la sostanza per quel che è, o è stato. Vale la pena di citare, per tutti, almeno Fascismo e antisemitismo, di Francesco Geminario (2009) che sintetizza, e approfondisce, un filone di analisi, che va da De Felice a Meir Michaelis, e che, al contrario dei «defascistizzatori», inquadra il fenomeno dell’antisemitismo fascista nel più ampio quadro dell’antisemitismo europeo, sottolineando quella dimensione drammatica del regime fascista per cui, per la componente ebraica del popolo italiano, il fascismo (e non il nazionalsocialismo o altri) «costituì la premessa storica delle deportazioni e dello sterminio degli ebrei italiani realizzatosi a partire dal 1943». Per dirla con lo stesso Geminario (che non per caso pone come sottotitolo alla sua opera “Progetto razziale e ideologia totalitaria”), «il vento gelido dell’antisemitismo non lascia immune il sistema ideologico fascista, costringendolo a rivedere paradigmi teorici e definizioni concettuali, in un rapporto, ideologico prima che politico, sempre più stretto con il nazismo».

Svolta imperiale e campagna contro gli africani
Ed è evidente che, qui, si ribalta la questione: non c’è nessuna riluttanza, magari ci sono tempi diversi, priorità diverse, forse anche una via italiana all’antisemitismo, figlia, soprattutto del più generale razzismo che covava sotto le ceneri già dagli Anni 20 e che la conquista dell’Etiopia e la proclamazione dell’impero italiano nel 1936 portarono prepotentemente alla ribalta. La svolta imperiale coincise con la diffusione di una campagna razzista, inizialmente diretta contro le popolazioni africane, definite razza inferiore e da civilizzare, ma che rapidamente si intrecciò con l’antisemitismo e, nel giro di pochi mesi, produsse una violenta campagna di stampa contro gli ebrei, accusati di essere i veri padroni della finanza internazionale e di aver fomentato le sanzioni economiche che avevano colpito l’Italia durante l’impresa etiopica. Gli ebrei cominciarono a essere descritti come un corpo estraneo alla nazione italiana, infido e pericoloso.
La razza italiana veniva definita di origine e civiltà ariana
Queste campagne erano diretta espressione di Mussolini e del regime fascista e univano nuove motivazioni all’antisemitismo diffuso fin dalle origini nel movimento fascista. Alla propaganda, comunque, fecero ben presto seguito documenti ufficiali, dal famoso Manifesto degli scienziati razzisti del luglio 1938, con cui si negava esplicitamente l’appartenenza degli ebrei alla razza italiana, definita di origine e civiltà ariana, fino alle famigerate leggi del novembre 1938. Insomma, sarà stata anche una via italiana all’antisemitismo, ma non ebbe nulla da invidiare, per violenza e sistematicità, a quella nazista. E dunque di ignominia fascista si deve parlare.