Ritorneraìs

Nicolò Delvecchio
30/07/2021

L'Aia vuole processarlo per crimini contro l'umanità. Tripoli lo ha condannato a morte. Ma Saif al-Islam Gheddafi, secondogenito del Colonnello, non molla. E intende riprendersi la Libia, come spiega in un'intervista al Nyt.

Ritorneraìs

Dopo anni di assenza dalla scena pubblica Saif al-Islam Gheddafi ha rilasciato la sua prima intervista al New York Times, annunciando i suoi piani per ritornare al comando della Libia.

Colto, ben educato, studente alla London School of Economics, in passato Saif sosteneva la necessità di riformare il Paese dando l’impressione di essere il “salvatore” dell’ex Jamahiriya. Da molti era considerato l’erede del padre Muammar, dittatore nel Paese dal 1969 alla sua morte, avvenuta nel 2011 per mano dei ribelli del Consiglio nazionale transitorio.

Allo scoppiare della guerra civile, però, Saif fu uno dei bersagli principali dei ribelli e della coalizione internazionale guidata dalla Nato. A differenza del padre e dei fratelli Mutassim e Saif al-Arab, entrambi assassinati, è stato rilasciato dopo qualche anno di prigionia e dal 2016 è libero, protetto dalle stesse milizie che lo avevano catturato. Sulla sua testa pende ancora una richiesta della Corte penale internazionale per processarlo per crimini contro l’umanità, e un tribunale di Tripoli lo ha condannato a morte per genocidio, anche se può ancora ricorrere in appello. Ma lui e si suoi sostenitori pensano che, se i libici dovessero sceglierlo come prossimo leader, i problemi legali potrebbero essere facilmente superati.

Saif al-Islam Gheddafi durante il processo in cui è stato condannato a morte (Getty)

Un Gheddafi alla guida della Libia, ipotesi possibile

Robert Worth, il reporter del Times che lo ha intervistato, lo ha incontrato a Zintan, a due ore di macchina da Tripoli. Barba tendente al grigio, più rughe di quante ne avesse 10 anni fa, a Saif mancano il pollice e l’indice della mano destra, saltati in un bombardamento, ma parla già come un Capo di Stato. Intanto ha riorganizzato il Movimento Popolare Nazionale Libico, partito fondato da alcuni lealisti del padre, e crede di poter riportare il suo Paese all’unità: «I politici hanno violentato questo Paese, ora in ginocchio. Non ci sono soldi né sicurezza, non c’è vita. Esportiamo petrolio e gas in Italia ma qui manca la benzina e abbiamo continui blackout. È un fiasco». Dopo anni in cui la Libia è stata in mano alle milizie e divisa in due tra il governo riconosciuto dall’Onu e quello del generale Haftar, l’ex colonia italiana vive adesso una situazione di relativa pace, ma in molti credono che non durerà. Per questo i sondaggi – per quanto parziali – dicono che il 57 per cento dei libici vorrebbe Saif come leader, e suoi sostenitori hanno partecipato alle trattative che hanno portato alla formazione dell’esecutivo di Mohammed al Manfi. Un Gheddafi nuovamente in pista, quindi, è uno scenario al quale tutti si stanno lentamente riabituando.

«La Libia è stata distrutta da Obama, non da mio padre»

Tornando indietro di 10 anni, la svolta “lealista” di Saif è considerata il momento in cui la guerra civile libica ha cambiato corso. Rientrato da Londra dopo aver inizialmente sostenuto le proteste e invitato il governo a varare le riforme necessarie, Saif pronunciò un discorso in cui, a sorpresa, prese le parti del padre e definì le rivolte «orchestrate drogati e criminali». Predisse la frattura della Libia in mini-stati, «i fiumi di sangue» che avrebbero invaso le strade, la guerra civile e la trasformazione del Paese in una roccaforte per i terroristi, ma all’epoca nessuno aveva intenzione di sentire. Il sostegno internazionale passò tutto dalla parte dei ribelli, e nel 2011 iniziò il bombardamento della Nato, guidato dagli Usa. «L’amministrazione Obama è responsabile della distruzione della Libia, non il governo di mio padre». «Quelle rivolte furono il centro di una tempesta perfetta», continua, «conseguenza di fenomeni che stavano crescendo da tempo, dalle tensioni esterne alle ambizioni opportunistiche di governi esteri, come quello francese di Nicolas Sarkozy». Fuggito da Tripoli, Saif fu catturato nella zona sud del Paese, al confine con Algeria e Niger, e portato a Zintan, nel nord. Dopo anni di prigionia le cose cominciarono a cambiare, perché il fronte della rivoluzione era al collasso e il Paese sull’orlo della guerra civile. I suoi stessi aguzzini cominciarono a vederlo come una figura di riferimento per riportare l’ordine nel Paese.

Saif Gheddafi, un ritorno sottotraccia

La distruzione portata dalle lotte tra il governo di al-Serraj e le milizie di Haftar, che per oltre un anno hanno provato – senza successo – a conquistare Tripoli ha avuto un ruolo fondamentale nella crescita della popolarità di Gheddafi jr. Che da parte sua è sempre rimasto nell’ombra, lasciando che la semplice potenza del suo cognome e le voci su un suo possibile ritorno infondessero speranza nella popolazione. «Sono stato lontano dai riflettori per 10 anni. Bisogna muoversi con calma, lentamente, come uno spogliarello. Bisogna giocare un po’ con la mente delle persone». Secondo il Nyt, Gheddafi non ha una reale percezione di ciò che i libici hanno passato in questi anni. Continua a chiamare i rivoltosi «criminali» e «terroristi», non muove critiche nei confronti del padre e punta il dito proprio contro la popolazione: «Gli arabi folli hanno distrutto i propri Paesi». Vive una sorta di doppia dimensione, perché se da un lato è convinto che la Libia abbia bisogno di libertà e democrazia, vede questi elementi come dei doni, da offrire al popolo in piccole dosi. Una doppia faccia che è sempre stata una sua caratteristica: nel 2005 invitò Human Rights Watch nella prigione Abu Salim, dove il regime trucidò oltre 1200 prigionieri politici che avevano protestato per le loro condizioni. Spinse affinché il governo riconoscesse le proprie responsabilità, e convinse il padre a offrire alle famiglie delle vittime un risarcimento. Ma, se gli si chiede oggi cosa pensa di quel massacro, commenta: «C’è stato un uso della forza eccessivo. Ma i prigionieri di Abu Salim erano terroristi islamici, e il popolo ha visto cosa hanno fatto in questi 10 anni. Andate a Bengasi e chiedete alla gente cosa pensa. Vi diranno che il lavoro non è stato finito». L’obiettivo di tornare al potere, però, non può prescindere dal consenso popolare, e Gheddafi lo sa: «Siamo come pesci, e il popolo libico è il nostro mare. Senza loro, moriamo. Da qui prendiamo il nostro supporto: ci nascondiamo qui, combattiamo qui, ci rinforziamo qui. I libici sono il nostro oceano».