Le recenti proteste in Georgia sono speculari, pur con le dovute differenze, a quelle in Moldavia, ma a parti invertite. A Tbilisi c’è un governo, democraticamente eletto, che viene accusato di essere filorusso e per questo la piazza protesta a gran voce, vuole il cambiamento, appoggiata in sostanza dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti; Mosca accusa l’Occidente di voler destabilizzare la piccola repubblica del Caucaso. A Chisinau il governo è invece filoccidentale, anche qui democraticamente eletto, e per le strade invece scende a protestare l’opposizione vicina alla Russia, accusata a sua volta da tutti di pianificare un colpo di stato. I modelli non sono certo nuovi, visti nel corso degli ultimi decenni in varie repubbliche ex sovietiche, a partire dall’Ucraina, passata dalla rivoluzione arancione filoccidentale del 2004, naufragata cinque anni dopo con l’elezione, democratica, di Victor Yanukovich del 2010, destituito nel 2014 in quello che a Mosca è stato definito appunto un golpe. Poi sono arrivati l’annessione della Crimea, la guerra nel Donbass e nel 2022 l’invasione russa.

La parabola di Saakashvili e la democracy promotion targata Usa
La Georgia è stata la prima delle repubbliche ex sovietiche a essere teatro di una rivoluzione colorata, quelle delle rose, avvenuta nel 2003, che portò allora alla presidenza di Mikhail Saakashvili, sostenuto apertamente dagli Usa. Allora i rapporti tra Stati Uniti e Russia erano ancora relativamente distesi, sull’onda della collaborazione nella lotta al terrorismo dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, e se a Mosca Vladimir Putin stava ancora prendendo le misure durante il suo primo mandato al Cremlino, a Washington stava iniziando la fase della ricerca dei regime change nei Paesi ex Urss, oltre che dall’Afghanistan all’Iraq. A Tbilisi con Saakashivili si compì dunque il primo atto di una strategia ben precisa, mascherata da quella della cosiddetta democracy promotion che ha coinciso più che altro con gli interessi nazionali statunitensi. La Georgia del 2003 non era però, al pari delle altre repubbliche caucasiche e dell’Asia centrale sino al 1991 sotto l’ombrello russo, una democrazia compiuta. Era appena uscita dalle guerre civili indipendentiste in Abcasia e Ossezia all’inizio degli Anni 90, ferite mai rimarginate, che hanno poi costituito la base per la guerra del 2008 e l’intervento russo. Saakashvili, all’inizio grande alfiere della democrazia, poi vittima di se stesso con l’involuzione autoritaria che l’ha visto prima scatenare gli attacchi nei territori abcasi e ossetini ai quali la Russia ha risposto invadendo mezzo Paese, poi la repressione interna, è stato costretto all’opposizione e in seguito accusato di vari crimini e perseguito dalla giustizia georgiana. Mentre così in patria i filoamericani venivano sostituiti negli scorsi 10 anni dall’élite più moderata, e più accondiscendente verso la Russia, guidata dall’oligarca Bidzina Ivanishvili, Saakashvili prendeva la strada dell’esilio negli Usa poi in Ucraina, facendo tra l’altro il governatore di Odessa, per rientrare a Tbilisi nel 2021, quando è stato arrestato.

Gli interessi di Russia e Usa in Moldavia, Caucaso e Asia centrale
Le proteste del 2023 sono guidate dal Movimento nazionale unito, fondato appunto nel 2001 da Saakashvili, che dal 2012 è all’opposizione e pare non voler aspettare le elezioni del prossimo anno per ritornare al potere. La strada delle rivoluzioni di piazza è ancora quella preferita dai partiti di opposizione, non solo georgiani, secondo il noto schema che trasforma una protesta, anche legittima e legata inizialmente a una questione precisa (la legge sugli agenti stranieri a Tbilisi, la situazione economica a Chisinau, la mancata firma dell’Accordo di associazione con Bruxelles a Kyiv) nel diritto di cambiare governo senza rispettare gli appuntamenti elettorali. Tutto già visto, con i ruoli intercambiabili, tra rivoluzioni e controrivoluzioni che a seconda della prospettiva vengono definite o colpi di stato turbolenti o legittimi passaggi di potere democratici. In questo contesto, che parte dalle situazioni specifiche interne, si inseriscono sempre gli interessi di Russia e Occidente, che non sono mai spettatori, ma attori interessati, ciascuno secondo le proprie caratteristiche. La guerra in Ucraina ha ulteriormente accentuato la contrapposizione sui palcoscenici che vanno dall’Europa (Moldavia) al Caucaso (Georgia) all’Asia centrale (Kazakistan), dove la competizione per le sfere di influenza è maggiormente evidente.
