L’Europa e il gas russo: chi può rinunciare e chi no
In Europa ci sono Paesi che possono rinunciare al gas russo e altri che, Germania in testa, ne sono dipendenti. Per questo la sospensione delle forniture a Bulgaria e Polonia, che non avrebbero comunque rinnovato i contratti con Gazprom, suona come una minaccia per chi l'embargo non può permetterselo.
In Europa ci sono due categorie di Paesi: quelli che possono fare a meno del gas russo anche da domani e quelli che invece avranno bisogno di anni per staccarsi dalla dipendenza, dovendo diversificare fonti energetiche e rotte di approvvigionamento. Tra i primi ci sono Polonia e Bulgaria, che già prima dell’inizio della guerra avevano deciso che non avrebbero rinnovato i contratti pluriennali con Gazprom in scadenza nel 2022. Varsavia e Sofia possono permettersi di non importare più l’oro azzurro di Mosca perché nel loro mix energetico il gas conta poco, rispettivamente circa il 7 e 13 per cento. La Polonia va sostanzialmente a carbone, circa l’80 per cento, e la Bulgaria fa lo stesso con carbone e nucleare.
A queste condizioni, con gli impianti di stoccaggio comunque sufficientemente pieni, lo stop delle forniture russe decretato da Gazprom non rappresenta un problema, dato che appunto si tratta di anticipare di qualche mese decisioni prese in precedenza. Al di là del motivo per cui si sia arrivati al blocco, i due stati dell’Unione hanno comunque le spalle coperte e la Russia aveva già messo in conto che dal 2023 non ci sarebbero state più entrate, non importa se in rubli o in euro. Lo stesso schema si è visto proprio tra Russia e Ucraina, con Kyiv che ormai da un paio d’anni non importa più gas russo, visto che il fabbisogno interno è soddisfatto in altra maniera, grazie soprattutto al nucleare. In tutti e tre i casi però le nazioni in questione sono Paesi di transito verso l’Europa e Kyiv, Varsavia e Sofia incassano cioè da Mosca le tasse per il passaggio diretto verso Occidente.

I Paesi che possono permettersi l’embargo al gas russo
Ci sono naturalmente altri Paesi, di transito o meno, che pur importano gas russo, lo fanno in minima percentuale sul totale del loro mix energetico e per questo possono permettersi di invocare quell’embargo contro la Russia richiesto a gran voce dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che pur ricevendo da Mosca un paio di miliardi di dollari all’anno per il transito, in tempi di guerra ha altri problemi di incasso e ne ha chiesti 7 al mese al Fondo monetario internazionale per tentare di tenere in piedi il Paese. Sono però di poco peso, politico ed economico, come l’Estonia o il Portogallo, la Svezia o la Grecia. Per i maggiori Paesi europei il gas è invece una delle voci fondamentali nel mix, circa tra il 20 e il 40 per cento, e la questione è problematica se esso arriva dalla Russia.
Dalla Germania all’Italia, chi dipende dalle forniture di Mosca
Germania, Austria, Italia, Ungheria, Romania, Olanda, Belgio e poi ovviamente le ex repubbliche della vecchia Unione Sovietica a partire da quelle fuori dall’Unione europea come Moldavia, Armenia o Bielorussia (circa 60 per cento di gas nel mix energetico), ma anche Lettonia e Lituania, dentro la Ue, sono le più dipendenti da Mosca e in questo caso cambiare fonte o rotta da un giorno all’altro è impossibile. Questa cordata è guidata da Berlino, che negli ultimi 30 anni ha sviluppato un rapporto energetico privilegiato con Mosca, grazie anche all’ex cancelliere Gerhard Schröder e alla sua amicizia personale con Vladimir Putin. L’abbandono forzato del progetto Nord Stream 2, il secondo braccio del gasdotto sotto il Baltico che collega direttamente Russia e Germania, non ha certo fatto cambiare strategia al Cremlino che ormai da qualche hanno aveva deciso di riordinare le proprie esportazioni verso Est. E se il cancelliere Olaf Scholz optasse per un embargo totale sul gas immediato porterebbe la Germania verso il tracollo; in vista c’è però quello sul petrolio, di cui la Germania potrebbe fare a meno anche sul breve periodo.

Il messaggio lanciato dal Cremlino all’Ue
Tutto questo il Cremlino lo sa e mentre respinge le accuse di ricatto in arrivo da Bruxelles e dalla presidente Ursula von der Leyen sta comunque attento a non tirare troppo la corda. L’ultimatum sul pagamento delle forniture in rubli si è trasformato in realtà in un trucco, con la possibilità in ogni caso per le compagnie occidentali di saldare i debiti in euro, poi riconvertiti sul mercato di Mosca, e il blocco a Polonia e Bulgaria, a primavera inoltrata, con le riserve abbondanti e a due Paesi che avevano già deciso di rinunciare al gas russo, è più che altro un segnale. Un messaggio comunque non rassicurante, nel senso che sottintende la possibilità di poter ripetere le mosse in futuro con altri Paesi, magari anche prima della scadenza dei contratti. Anche a costo di subire in casa pesanti perdite economiche.