Sono ormai quasi derubricati ad “ordinaria amministrazione” gli sgambetti e le trappole disseminate da Forza Italia sul cammino di FdI. Solo che, è il ragionamento che si fa nel partito meloniano, un conto sono le sortite da gestire in casa, un altro è «dover cercare di mettere toppe all’estero». E il rifermento, manco a dirlo, è allo scambio di battute a distanza tra Volodymyr Zelensky a Silvio Berlusconi acceso dall’ennesimo attacco di B al presidente ucraino. In qualche modo era messo in conto e Meloni stessa in cuor suo sapeva che la grana Cav sarebbe potuta esplodere, come poi è accaduto, e non c’era modo di evitarla. Solo che il leader di Arcore è riuscito non soltanto a guadagnarsi la scena oltreconfine, ‘macchiando’ la narrazione meloniana di un sostegno compatto all’Ucraina e ottenendo la solidarietà di Mosca («In un altro impeto di rabbia impotente, l’abitante del bunker ha attaccato Berlusconi, che aveva ricordato al regime di Kyiv il Donbass», ha commentato la portavoce del ministro degli Esteri Sergei Lavrov Maria Zacharova) ma anche a ergersi in patria a vittima, non difesa a dovere dalla premier. Quale benzina migliore per attizzare ancora di più il fuoco tra i parlamentari azzurri. Ammesso che ce ne fosse bisogno.

Cento giorni di sgambetti azzurri
D’altronde, è da quando si è insediato che il governo è alle prese col martellante controcanto di Forza Italia. È successo agli esordi con il tanto discusso decreto Rave: non sono mancati i mal di pancia sul pugno duro nei confronti dei raduni e poi si è registrata la posizione irremovibile della capogruppo di FI al Senato Licia Ronzulli contro il reintegro anticipato al lavoro dei medici no vax. Ma senza andare così indietro, basta guadare al decreto Milleproroghe. È cronaca recente la battaglia (persa) sui diritti tv portata avanti dal senatore azzurro Claudio Lotito, malvisto da molti Fratelli d’Italia, e quella vinta invece sui balneari. Quest’ultima condotta da FI, con Maurizio Gasparri in prima fila, stavolta in asse con la Lega. Alla fine, gli alleati di FdI, infatti, sono riusciti a spuntarla ottenendo l’ulteriore proroga di un anno delle concessioni. Ma anche mettendo a nudo il delicato piano inclinato su cui si è trovata la presidente del Consiglio, stretta tra la posizione storica sempre tenuta dal suo partito e la necessita di «fare i conti con la realtà» e cioè con una procedura d’infrazione che pende come una spada di Damocle sull’Italia.
Le frizioni su carburanti e superbonus
E che dire del decreto carburanti che dopo il voto di fiducia è stato licenziato martedì alla Camera (entro il 15 marzo dovrà essere convertito al Senato)? Pure su questo provvedimento il partito di maggioranza, già alle prese con il caro benzina e le proteste dei gestori poi sfociate in sciopero, ha dovuto vedersela col fuoco amico. Stavolta a prendersi la scena era stato il deputato e responsabile Energia di Forza Italia, Luca Squeri, tra l’altro imprenditore nel settore carburanti. Alla fine nel testo è rimasto l’obbligo per i distributori di esporre il prezzo medio regionale sulla rete non autostradale e il prezzo medio nazionale sulle autostrade, ma resta agli atti la contrarietà netta espressa dal parlamentare di FI. Non che sullo stop alla cessione dei crediti del superbonus, da poco approvato in Consiglio dei ministri, sia mancata la levata di scudi azzurra, surriscaldando un clima già reso rovente dal pressing delle opposizioni. Lo sblocco dei crediti incagliati attraverso le tasse versate con i modelli F24 dal sistema bancario per conto dei clienti, però, sembra essere la soluzione capace di mettere d’accordo la maggioranza e placare i berlusconiani, che infatti ci hanno piantato subito sopra la loro bandierina. Insomma, quasi un lieto fine rispetto agli aut aut iniziali recapitati al governo da esponenti di spicco di Forza Italia, come il capogruppo a Montecitorio Alessandro Cattaneo («Il conto non possono pagarlo famiglie e imprese. Togliere il superbonus potrebbe determinare anche una frenata dell’economia») o il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè, con il suo categorico: «Le modifiche parlamentari sono per quanto ci riguarda non solo necessarie, ma irrinunciabili».

L’affaire Donzelli-Delmastro
Ecco, proprio Mulè è tra i forzisti più sugli scudi. In questi oltre 100 giorni di vita del governo non le ha di certo mandate a dire. È stato così sull’affaire Donzelli-Delmastro quando sin da subito espresse la sua in un’intervista a La Stampa: «Donzelli ha fatto un processino, che non appartiene al mio modo di fare politica e allo stile di tutta Forza Italia». Senza contare le parole non proprio al miele nei confronti degli altri FdI che «si sono incaponiti pur di non chiedere scusa» e sono stati «vittime della sindrome di Fonzie». Ma è soprattutto sul caso Montaruli che, dopo la sentenza di condanna della Cassazione sulle spese pazze in Piemonte, Mulè si è esposto maggiormente arrivando ad evocarne le dimissioni dall’incarico di sottosegretaria. Dimissioni che poi sono arrivate ma che comunque hanno creato un vero e proprio caso politico. Con tanto di frecciate al veleno da parte del partito della premier che, per l’occasione, seppure dietro il paravento di “fonti autorevoli”, ha staccato i guantoni dal chiodo e menato fendenti: «Mulè ha preso uno schiaffo morale dalla Montaruli la cui impronta gli manterrà la faccia ben più rossa di quanto rubiconda sia». E poi ancora: «È intollerabile che provocatorie insinuazioni vengano da un personaggio come Mulè, che di pregiudicati eccellenti nel suo partito ne vanta più di uno». Fino alla dichiarazione di antipatia espressa senza giri di parole dal presidente del Senato Ignazio La Russa durante l’intervista a Belve, non senza prima averne storpiato il nome: «Mules, o come si chiama… Non ho nemici, ma non mi è simpatico». In barba, insomma, ai ripetuti inviti ai toni bassi di Meloni all’indirizzo dei suoi.

La partita delle armi da inviare a Kyiv e il nodo dei jet
Segno che la convivenza tra il primo e il terzo partito della coalizione di centrodestra è al limite? Dentro Fratelli d’Italia tendono a derubricare e parlano con Tag43 di «normali divergenze in partiti che sono comunque diversi». Sta di fatto che sono queste le acque agitate in cui l’esecutivo Meloni è stato costretto a surfare fino a ora. Senza contare le nuove onde alte che si intravedono all’orizzonte. Una di queste è la partita sulla giustizia che sarà di sicuro terreno di scontro: «Su temi come la separazione delle carriere e intercettazioni», dicono fonti azzurre, «non faremo sconti». Del resto un alert, anche se poi subito rientrato, c’è già stato con il pressing di Forza Italia per istituire una commissione d’inchiesta sui pm subito dopo l’assoluzione di Berlusconi sul Ruby ter. Dal canto loro i meloniani non si scompongono: «Quella della commissione era solo una reazione di pancia. Sulle intercettazioni, è vero, potranno emergere divergenze», ammettono, «ma quello che conta, alla fine, è il programma. È quella la bussola per tutto il centrodestra». Sgambetti e sgarbi, tuttavia, sono da mettere in conto soprattutto sul tema guerra in Ucraina, visto che a quanto pare è in preparazione un settimo pacchetto sugli aiuti militari. E le avvisaglie già ci sono. Del resto, nello stesso giorno, lunedì scorso, il ministro azzurro agli Esteri, Antonio Tajani, e il suo viceministro in quota FdI, Edmondo Cirielli, hanno suonato uno spartito completamente diverso, con il primo che, intervistato da La Stampa, ha escluso l’invio di caccia italiani («è praticamente impossibile», ha detto. Posizione sostenuta anche dalla Lega) e il secondo che dalle colonne del Messaggero è apparso molto più possibilista: «Si può avviare un discorso sui caccia bombardieri Amx». Dal canto suo Meloni è stata chiara e da Kyiv ha sentenziato: «Quando c’è un aggredito, tutte le armi sono difensive».

Tajani secondo i rumors sarebbe pronto a passare a FdI
I Fratelli d’Italia scansano il problema e non temono più di tanto alzate di testa da parte di Forza Italia: «Proprio le parole di Zelensky su Berlusconi», si sussurra, «dovrebbero far riflettere i forzisti. Del resto, paradossalmente, sono state un assist incredibile per la premier, ne hanno rafforzato il profilo di vera atlantista. Al Cav la scelta, dunque, se lasciare solo a lei la patente di responsabile». In caso B continuasse sulla sua strada, a finire sulla graticola sarebbe però Tajani, nello scomodo ruolo di vicepremier e vicepresidente di Forza Italia. Tanto che nei corridoi romani molti lo darebbero a breve pronto a passare con Fdi.
Le Europee 2024 e l’ipotesi di asse tra conservatori e Ppe
Tra un anno poi ci sono le Europee e queste sì che potrebbero mettere a dura prova la convivenza tra i due partiti, soprattutto se dovesse prendere corpo l’asse tra i conservatori, guidati proprio da Meloni, e il Ppe, dove si colloca Berlusconi, seppure in modo più precario a causa degli scricchioli che proprio le sue uscite su Zelensky hanno provocato nella famiglia dei popolari. Non a caso dopo l’intemerata del Cav sul leader ucraino il Ppe ha annullato le giornate di studio a Napoli. «Il supporto per l’Ucraina non è facoltativo», ha twittato il capogruppo dei Popolari europei Manfred Weber. «Antonio Tajani e Forza Italia hanno il nostro sostegno e proseguiamo la collaborazione con il governo italiano sui temi dell’Ue».
Following the remarks by Silvio Berlusconi on Ukraine we decided to cancel our study days in Naples. Support for Ukraine is not optional. @Antonio_Tajani and @forza_italia in @EPPGroup have our full support. We continue the cooperation with the Italian government on EU topics.
— Manfred Weber (@ManfredWeber) February 17, 2023
«È un progetto rispetto al quale Berlusconi potrà cercare di mettersi di traverso», ammettono fonti parlamentari di FdI, «ma non più di tanto. Alla fine è il voto che decide tutto e stabilirà eventualmente questa saldatura. D’altronde si replicherebbe a livello europeo la stessa prospettiva che FI vive nel governo nazionale». Insomma, una sorta di prendere o lasciare per Forza Italia? «Le posizioni maggioritarie o minoritarie non si decidono a tavolino», tagliano corto. «È il voto, bellezza…».