A vuotare il sacco è stata Frances Haugen. Trentasettenne, ex product manager di Facebook, ha fornito al Wall Street Journal e alla Securities and Exchange Commission, circa un mese fa, i dossier interni che hanno messo sottosopra il colosso di Menlo Park. I motivi li ha spiegati durante un’intervista andata in onda domenica scorsa, all’interno del programma 60 Minute. A spingerla, la preoccupazione per politiche aziendali che hanno sempre preferito il profitto all’incolumità pubblica. «C’erano conflitti di interesse tra ciò che era utile alla collettività e cosa convenisse a Facebook. Ed è stato sempre quest’ultimo piatto della bilancia a prevalere. Si è cercato solo di fare più soldi». E ancora: «La versione di Facebook attuale sta lacerando il mondo, creando conflitti e violenze etniche». Ingegnere informatico di Iowa City, un Mba ad Haward, specializzata nell’analisi dei dati, era approdata all’azienda nel 2019, dove è rimasta fino a maggio scorso. Prima, per un decennio, aveva lavorato nel settore tecnologico, divisa tra Google e Pinterest. Al momento del suo ingresso in Facebook, accettò a patto di poter aiutare l’azienda nella lotta alla disinformazione. Un attaccamento alla causa, generato da una questione personale. Nel periodo precedente, infatti, aveva perso i contatti con un amico per la diffusione di bufale sul web.
Whistleblower Frances Haugen is a data scientist from Iowa with a computer engineering degree and a Harvard MBA. She told us the only job she wanted at Facebook was to work against misinformation because she had lost a friend to online conspiracy theories. https://t.co/csgaRe6k5h pic.twitter.com/tSNav057As
— 60 Minutes (@60Minutes) October 3, 2021
L’odio su Facebook conseguenza delle politiche aziendali
«Nessuno all’interno di Facebook è malvagio. Zuckerberg non ha mai voluto creare una piattaforma in grado di generare odio. Che però resta la conseguenza di gravi politiche aziendali. Ho lavorato per tanti social network, ma in nessuno ho visto le stesse cose». Ha detto Haugen. Eppure un passo in avanti era stato fatto, nel 2020, in occasione delle elezioni americane. Allora, per diverse settimane, cambiò la policy della piattaforma e nel feed vennero depotenziati i contenuti a carattere politico. Una svolta durata lo spazio di un battito di ciglia, i cui effetti sarebbero stati ben più gravi e duraturi: «Inutile girarci intorno, con il ripristino dei vecchi algoritmi si è contribuito indirettamente ai disordini del Campidoglio». Scelte rischiose e dettate esclusivamente dal ritorno economico: «Il passo indietro è stato giustificato dall’immediato calo dei clic e dal minor tempo trascorso dagli utenti sul sito». Così venne sciolto il Civic misinformation team in cui lavorava Haugen e i suoi sentimenti nei confronti dell’azienda iniziarono a mutare. «Avevano superato le elezioni senza incidenti, quindi pensarono che non servisse più la sorveglianza a cui ero impiegata. Capii, dunque, che l’azienda non fosse disposta a fare quanto in realtà potesse».
La risposta di Facebook alle accuse di Haugen
Accuse pesanti, a cui Facebook si è ritrovata costretta a rispondere, affermando che le funzioni svolte dal team di Haugen non fossero state cancellate, ma accorpate ad altri reparti. Vicepresidente della politica e degli affari pubblici per la Big tech, Nick Clegg ha aggiunto in una nota: L’impatto dei social media sulla società negli ultimi anni è stato enorme. Facebook è diventato il luogo in cui oggi si svolge il dibattito pubblico. Ma non ci sono prove che le piattaforme siano la causa principale della polarizzazione politica o di problemi per gli adolescenti». Gli ha fatto eco Lena Pietsch, portavoce del social, che ha ribadito il concetto alla Cnn: «Ogni giorno i nostri team lavorano per bilanciare la libertà d’espressione con la necessità di mantenere le piattaforme come un luogo pulito. Continuiamo ad apportare correttivi per arginare la produzione di contenuti dannosi. Dire che non viene fatto nulla è semplicemente falso». Dopo l’intervista la portavoce ha rincarato la dose: «Haugen ha utilizzato apposite parti di report interni per raccontare una storia fuorviante». Di questo, eventualmente, dovrà rendere conto al Congresso, davanti a cui è chiamata a comparire martedì. La scorsa settimana, invece, è stato il turno di Antigone Davis. Capo della sicurezza di Facebook, a lui sono state chieste delucidazioni circa la consapevolezza della compagnia sui danni causati ai giovani da Instagram, all’interno di una disputa ancora lontana dal concludersi.