Manila Race

Giovanni Sofia
11/10/2021

Un pugile, il figlio di un dittatore e un ex attore di pellicole erotiche. E ancora, l'avvocatessa Leni Robredo e l'incognita di una candidatura last minute per la figlia di Duterte. È partita la strana corsa alla presidenza delle Filippine.

Manila Race

Il figlio di un dittatore, un ex attore di pellicole erotiche e un pugile pluricampione del mondo. Sembra la più classica delle barzellette, sono invece gli uomini a cui è appeso il futuro delle Filippine. Tutti e tre in corsa per la poltrona di presidente, attualmente occupata da Rodrigo Duterte, che completato il mandato di sei anni si farà da parte, in linea con quanto prevede la Costituzione. Venerdì scorso, la scadenza dei termini per le candidature ha confermato che a contendersi il ruolo, a maggio 2022 saranno Ferdinand Marcos Junior, per tutti Bongbong, Manny Pacquaio, già senatore e sportivo più pagato al mondo del 2011, Leni Robredo, attuale vicepresidente in rotta con Duterte e Isko Moreno, sindaco di Manila ed ex star del cinema locale. Un parterre variegato, in cui come spiega alla Cnn Richard Heydarian, professore di storia e scienze politiche all’università politecnica delle Filippine, «Non c’è un grande favorito». E in un sistema elettorale che prevede un solo turno, il margine per vincere potrebbe essere risicatissimo.

L’incognita Sara Duterte Carpio

A meno che, sorpresa last minute, nella contesa non si inserisca Sara Duterte Carpio. Prima cittadina di Davao, ma soprattutto figlia dell’attuale presidente, sarebbe, infatti, la preferita nei sondaggi. Popolarità, che però, stando alle sue ultime affermazioni non ne scalfirebbe programmi diversi. La donna, classe 1978, ha infatti respinto ogni ipotesi di sostituzione del padre alla guida del Pdp-Laban, puntando piuttosto a ricandidarsi come sindaca di Davao. La presentazione di tali documenti, tuttavia, le consente una proroga dei tempi e l’eventuale possibilità di sostituirli con quelli per la presidenza fino al prossimo 15 novembre. Si tratterebbe di un deja vù, lo stesso sistema utilizzato dal padre nel 2016. Per questo i detrattori, vedono in lei la longa manus dell’attuale presidente, che nei giorni scorsi ha ripetuto, invece, di volersi ritirare dalla scena politica. I sostenitori, al contrario, la ritraggono meno spigolosa del genitore, aperta al dialogo e sempre disposta ad ascoltare e recepire i consigli dei suoi collaboratori.

Ferdinando Marcos Junior, il figlio del dittatore

Chi ci sarà sicuramente è un altro figlio d’arte, Marcos Junior. Suo padre, ha insanguinato il Paese per oltre due decenni, fino alla deposizione nel 1986 in seguito a un’insurrezione popolare. L’erede, martedì ha scelto Facebook per chiedere ai cittadini di «unirsi a lui nella causa più nobile». Originario di Manila, dove è nato nel 1957, assicura di essere il profilo ideale per far ripartire l’arcipelago dopo la crisi causata dal Covid. Intanto ha annunciato il suo ingresso nella corsa il 12 settembre. Non una data qualsiasi, ma il 49esimo anniversario dall’istituzione nelle Filippine della legge marziale voluta dal padre.

Di cui forse non avrà ereditato i modi, ma a detta di molti i soldi. Si ritiene infatti che da quel periodo la famiglia abbia intascato un patrimonio pari a dieci miliardi di dollari. Accuse da Bongbong sempre rispedite al mittente e giudicate calunniose. Non, però, a detta dei gruppi a sostegno dei diritti umani, «inorriditi» al pensiero di un nuovo Marcos alla guida del Paese. Lo hanno ribadito lo scorso mercoledì, radunati davanti alla Commissione per i diritti umani di Manila. «I Marcos rimangono immuni alla prigione, non hanno restituito i soldi che hanno ottenuto illegittimamente e adesso rischiano di coprire nuovamente la carica più alta del Paese». Dal canto suo Duterte non ha mancato di manifestare appoggio a Marcos, che, sua volta, vorrebbe designarlo vicepresidente in caso di elezione. Sul punto è intervenuta anche Maria Ressa, di recente premio Nobel per la pace, che ha raccontato come la popolarità di Duterte a Sud e Marcos a Nord costituirebbe una combo formidabile. Solo i sospetti di corruzione, autentica spada di Damocle per il candidato e tema molto caro alla popolazione, potrebbero stravolgere le carte.

Manny Pacquiao, un pugile sul ring della politica

La carriera sportiva di Manny Pacquiao non ha bisogno di ulteriori presentazioni. Durata oltre 25 anni, gli ha consentito di ergersi tra i più grandi interpreti di sempre della boxe. Diverso il discorso sulle abilità politiche, ancora tutte da dimostrare. Dipinto dalla Cnn come «altamente carismatico e profondamente cristiano», venne eletto in Senato per la prima volta nel 2016, affermando di voler aiutare gli ultimi. In quell’occasione ha raccontato delle origini povere, quando per sbarcare il lunario vendeva per strada sigarette e caramelle. Premesse, a cui non hanno fatto seguito fatti all’altezza: «Sta entrando nella contesa, ma il suo spessore politico è ancora tutto da verificare e l’esperienza precedente non è stata ottimale», ha detto Heydarian. «Per vincere lo scetticismo avrebbe prima dovuto misurarsi con la carica di vicepresidente e successivamente fare il grande salto». Gode, comunque, di ampia popolarità presso i ceti più poveri, e questo lo rende un pretendente serio alla vittoria. Pacquiao, che iniziamente beneficiava del sostegno di Duterte, oggi ne è un fermo detrattore. Il pugile ha accusato il presidente di aver lucrato sulla pandemia e messo in discussione la bontà rapporti con la Cina. Ha posizioni profondamente conservatrici su aborto e diritti Lgbtq, che gli sono costate uscite in felici, come nell’occasione in cui disse che «i gay fossero peggio degli animali».

Moreno, da attore a possibile presidente

Pacquaio non è, però, l’unica star della contesa. Gli fa buona compagnia l’attuale sindaco di Manila, Francisco Domagoso. In arte Moreno, ha presentato la candidatura la scorsa settimana e negli ultimi anni è stato protagonista di un’ascesa fulminea. Cresciuto tra gli slum di Manila, da ragazzino metteva insieme qualche soldo raccogliendo e rivendendo spazzatura. Poi la svolta, negli anni ’90, quando si è imposto come uno degli attori più in vista del Paese. Protagonista soprattutto di film bomba, pellicole erotiche molto in voga nelle Filippine, interpretava ruoli romantici. Grazie alla popolarità crescente, nel 1998 si è seduto al consiglio comunale di Manila, di cui è diventato vicesindaco (2017) e poi primo cittadino (2019). A distanza di due tenta l’assalto alla poltrona più importante. Heydarian lo ha descritto come un populista educato. «La sua retorica è orientata alla famiglia e meno feroce di altre a cui siamo stati abituati. Le sue proposte risultano alle volte addirittura centriste o progressiste».

Leni Robredo, vicepresidente e avvocatessa per i diritti umani

Chiude il cerchio Leni Robredo, attuale vicepresidente e avvocatessa per i diritti umani, ha duramente contrastato le politiche di Duterte, definendo «insensata» la guerra alla droga. Il suo ruolo di spicco si giustifica perché la carica nelle Filippine non è nominale, ma frutto di una elezione separata e può essere rivestita anche da esponenti dell’opposizione. Nel 2019 Duterte l’aveva nominata al vertice dell’agenzia antidroga, salvo poi sollevarla dall’incarico appena tre settimane più tardi, in seguito alla scoperta degli incontri organizzati con agenzie internazionali. Premiata per il suo lavoro nell’ambito dell’uguaglianza di genere e in favore delle donne, con le figlie lo scorso giovedì ha chiesto al Paese «di accompagnarla in un futuro di pari opportunità». Attualmente, però, la risposta sarebbe freddina e i sondaggi la danno al quinto posto. Una proiezione che non la scoraggia, in quanto già nel 2019 fu capace di ribaltare i pronostici e sbaragliare la concorrenza.