Tatuaggi, il maestro Fercioni tra un’autobiografia e lo sfratto

Gian Maurizio Fercioni, il maestro italiano dei tatuaggi, esce in libreria con una autobiografia. Proprio mentre il suo studio-museo il Queequeg di Milano è sotto sfratto. Un patrimonio di 50 anni di storia che la città non può perdere.

Tatuaggi, il maestro Fercioni tra un’autobiografia e lo sfratto

Estate del 1960. Al porto di Viareggio, ormeggiata, c’è una vecchia barca da regata. Voci dicono che sia appartenuta a Göring, il famigerato gerarca nazista, e che la barca sia stata successivamente requisita dagli inglesi. Di guardia, a bordo, c’è un medaglia d’oro della Marina, un certo Paolo Volpe, un marinaio esperto che ha fatto più volte il giro del mondo e che nei suoi viaggi ha imparato anche a tatuare a mano. «Fu proprio lui a sverginarmi. Avevo 14 anni. Mi disegnò sull’avambraccio un’ancora». La voce è quella di Gian Maurizio Fercioni, una leggenda vivente, anche meglio conosciuto come il primo tatuatore d’Italia.

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Il libro Gm Fercioni, edizioni Magenes.

Una vita tra scenografie e tatuaggi

Classe 1946, Fercioni è un personaggio che sembra uscito da un romanzo d’altri tempi: completo in tweed di alta sartoria, Church’s ai piedi, barba ben curata, modi da gentiluomo. Basta però che slacci due bottoni della camicia che di colpo affiora tutta la sua vita, divisa tra i tatuaggi e il mestiere di scenografo: due facce della stessa medaglia, figlie entrambe di una passione artistica coltivata fin da ragazzo, prima nelle aule del liceo artistico di Brera e poi all’Accademia di Belle Arti. Le cronache si stanno occupando di lui in questi giorni sostanzialmente per due motivi che il destino, cinico e baro, ha voluto affiancare in maniera quasi beffarda. È appena uscito un libro edito da Magenes che racconta la sua avventurosa vita, intitolato semplicemente GM Fercioni, e in contemporanea ha ricevuto lo sfratto dal suo studio, il Queequeg, in via Mercato a Milano; studio che contiene al suo interno anche il primo e unico Museo del tatuaggio in Italia.  «Non è esattamente uno sfratto», tiene a precisare la moglie Luisa Gnecchi Ruscone, «solamente che il proprietario dopo tanti anni ha deciso di non rinnovarci il contratto d’affitto, e oltre al disagio di trovare un nuovo spazio per lo studio rischiamo di dover chiudere definitivamente il museo e sarebbe davvero un peccato».

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Lo stemma del Queequeg (Foto di Andrea Frateff-Gianni).

Il fascino per Queequeg di Moby Dick

Fercioni, oltre a essere stato uno dei fondatori del Pier Lombardo, insieme a Franco Parenti, Andrée Ruth Shammah e a Giovanni Testori, è stato anche il primo ad aprire uno studio di tatuaggi a Milano a metà degli Anni 70, quando la professione praticamente ancora non esisteva. Un periodo  in cui a tatuarsi, oltre ai marinai e a qualche rampollo dell’aristocrazia, erano soprattutto prostitute e galeotti. «Mio padre mi regalò Moby Dick di Melville. Un romanzo straordinario che mi cambiò la vita. In particolare mi colpì la figura di Queequeg, questo arpioniere maori, tatuato dalla testa ai piedi, al quale poi ho deciso di dedicare il mio studio», racconta a Tag43. 

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Gian Maurizio Fercioni e la moglie Luisa Gnecchi Ruscone (foto Andrea Frateff-Gianni).

Una firma testa e lisca

Nel libro Gm Fercioni c’è di tutto: le rocambolesche avventure nei porti di mezzo mondo, da Amburgo a Marsiglia. L’amore per il teatro, quello per la vela, l’amicizia con Gabriele Salvatores. «Io e Gian Maurizio ci siamo conosciuti sul set del suo primo film», ricorda la moglie. E ancora, le difficoltà nell’intraprendere una professione sconosciuta, ammantata da un’aura di mistero e di torbida pericolosità. «Era un vero e proprio delirio. Avevo visite tutte le settimane dalla Guardia di Finanza, dalla Polizia, dai Carabinieri. Allora lo zoccolo duro della clientela del tatuaggio era composto più che altro ragazzi dei centri sociali, i primi punk, gli skin. Giù in cortile o per strada, in via Formentini dove avevo aperto il mio primo studio, questi si pigliavano e si accapigliavano, per cui giù botte da orbi. Era un casino anche perché io ero percepito come il creatore di un covo di fuori di testa», continua. Così dopo qualche tempo ha dovuto «calmarli» e «dire loro: “Bambini, qui o vi date una regolata oppure a me mi chiudono e voi poi non vi tatuate più da nessuna parte”». Non mancano inoltre aneddoti legati alla storia degli antichi significati del tatuaggio compreso quello della famosa firma di Fercioni, testa e lisca, un modo di dire toscano che in gergo sta a significare più o meno “non ce n’è per nessuno”, “state alla larga”. Per salvare il Queequeg la figlia Olivia ha aperto una petizione su Change che ha già raccolto migliaia di firme e inoltre sono stati lanciati due appelli: uno al sindaco Beppe Sala e uno all’assessore alla Cultura Tommaso Sacchi che però, fino a ora, non sembrano essersi mossi per salvare un patrimonio culturale della città di Milano, cimeli accumulati in 50 anni di storia.