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Il fascio discreto della borghesia

Fino alla pubblicazione dell’inchiesta Lobby nera, nessuno ne conosceva i protagonisti. Eppure quel sottobosco di relazioni ha contribuito negli anni al successo dei partiti sovranisti. Folklore di cattivo gusto o una minaccia reale per la democrazia?

10 Ottobre 2021 16:23 Marco Fraquelli
neofascisti: minaccia o floklore?

Chiara Valcepina, Massimiliano (Max) Bastoni, Roberto Jonghi Lavarini, Stefano Pavesi. Di queste persone, la stragrande parte degli italiani ignorava i nomi e l’esistenza stessa, almeno fino a giovedì 30 settembre, quando un’inchiesta giornalistica di Fanpage sulla cosiddetta lobby nera milanese, trasmessa nel corso di Piazza Pulita, e rilanciata con molto clamore dai media, ne ha rivelato non solo l’esistenza, ma anche una presenza attiva all’interno di quella inquietante e variegata galassia della destra radicale milanese che vede l’intersecarsi di esponenti di Fratelli di Italia e della Lega con i movimenti più tradizionali, rappresentativi e “militanti” – à la Forza Nuova per intenderci – per il tramite di relazioni e frequentazioni comuni.

Così l’estrema destra ha aiutato i partiti sovranisti

Relazioni e frequentazioni che pure hanno dato alle forze sovraniste buoni risultati in termini di consenso elettorale, se è vero, come rivela Fanpage, che la Lega, per esempio, grazie all’alleanza di suoi esponenti con gli estremisti di Lealtà Azione, ha potuto ottenere sostegno nella elezione di Massimiliano Bastoni e Gianmarco Senna al Consiglio regionale lombardo, di Silvia Sardone al Consiglio comunale di Milano e all’Europarlamento, di Igor Iezzi, Paolo Grimoldi, William De Vecchis e Jari Colla in Parlamento. Per l’opinione pubblica si è trattato di una scoperta sorprendente, non solo per i contenuti eticamente ed esteticamente discutibili mostrati nell’inchiesta (tralasciamo naturalmente, per ovvi motivi, gli aspetti al centro dell’indagine giudiziaria), ma anche perché ne sono protagoniste persone in qualche caso persino anonime nella loro normale quotidianità, comunque ben lontane dai riflettori della popolarità. Si potrebbero forse definire come “fascisti della porta accanto”. E chissà cosa avrà pensato, per esempio, qualche cliente dell’avvocata Valcepina (eletta poi al Consiglio comunale di Milano in quota FdI), vedendo la sua professionista di fiducia muoversi garrula e pienamente a suo agio tra saluti romani (pardon, “saluti Covid”), slogan fascisti e battute razziste e antisemite. E sconosciuti al di fuori dell’ambiente d’area, come si dice, sono anche gli altri protagonisti: dal “barone nero” Jonghi Lavarini al giovane Pavesi, collaboratore al Parlamento europeo (un tempo si sarebbe detto portaborse) di Silvia Sardone.

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Minaccia per la democrazia o millantatori utili solo alla sinistra?

Ma cosa rappresentano questi fascisti della porta accanto? Una minaccia reale per la democrazia? Un campanello d’allarme? O solo una parodia in nero della sgangherata armata Brancaleone? Si tratta di goliardia? Folklore? Si possono paragonare ai gruppetti di malati di reducismo che ogni anno, bardati di camicia nera e fez, all’anniversario della morte di Benito Mussolini si recano in pellegrinaggio alla sua tomba in quel di Predappio? Sono improbabili macchiette nere che – come ha detto Giorgia Meloni in un’intervista al Corriere della Sera il 9 ottobre – si possono definire solo come utili idioti al servizio della Sinistra che, grazie a loro, può rivitalizzare, nei momenti salienti (per esempio in prossimità degli appuntamenti elettorali) il sentimento antifascista radicato, ma un po’ sopito, nelle comunità? O, più semplicemente, popolano come funghi e licheni un po’ parassiti un sottobosco comunque del tutto innocuo, che tutt’al più può sprigionare un po’ di malsana umidità? Usando meno metafore, ci si può chiedere: questi personaggi hanno un ruolo (non diciamo potere) reale nell’universo della destra radicale e sovranista o sfruttano semplicemente – e tatticamente – le situazioni per vivacchiare, a volte magari prosperare, a colpi di millanteria (Jonghi Lavarini, per esempio, ha in più occasioni sostenuto di poter mobilitare, a Milano, almeno 5 mila voti, ma nessuno li ha mai visti…)? Al netto della vicenda contingente, che ne tratteggia più un profilo da banda dei soliti ignoti, o da vittime di Scherzi a parte, per come si sono fatti abbindolare dal giornalista di Fanpage per ben tre anni, va detto che la loro contiguità con personaggi come i leghisti Mario Borghezio e Alberto Ciocca, la ricordata Silvia Sardone e il capogruppo al Parlamento europeo per Fratelli d’Italia Carlo Fidanza, magari anche loro non proprio politici di punta ma pur sempre esponenti significativi delle rispettive forze politiche, sembrerebbe deporre più a favore di un certo spazio politico concesso a questi “utili idioti”. Sulla base di quanto visto da Fanpage, potrebbe essere tuttavia un po’ azzardato sostenerlo con sicurezza.

i fascisti della porta accanto
Neofascisti a Predappio nel 2016 (Getty Images).

Col revisionismo si abbassano le difese immunitarie democratiche

Piuttosto, c’è un punto che merita di essere sollevato perché rilevante o meno che sia oggi il ruolo di questi signori (e signore) – al netto del cattivo gusto, e persino del valore offensivo delle loro espressioni –  ben più importante potrebbe essere, in prospettiva analizzare il contesto complessivo, ovvero quel comune sentire che, orientando i giudizi dell’opinione pubblica, potrebbe rivelarsi determinante nella condanna così come nella noncuranza, o persino nella tolleranza, di questi comportamenti. E quindi nel delimitare o al contrario allargare lo spazio di azione dei vari Jonghi Lavarini e compagnia bella. In questo senso, l’esperienza sin qui vissuta non sembra incoraggiante. Si tratta di quel revisionismo storico che – partito un po’ in sordina ormai quasi 40 anni fa e confinato al solo livello di dibattito storiografico (gli studiosi sono piuttosto concordi nell’individuarne la nascita nella famosa Intervista sul fascismo rilasciata da Renzo De Felice a Michael Ledeen) – ha, poco a poco e sempre più apertamente, permeato l’ambiente politico, intellettuale, mediatico, fino a orientare buona parte dell’opinione pubblica del nostro Paese, minando la memoria storica, e indebolendo così le nostre difese immunitarie contro le tentazioni autoritarie e sovraniste.

La scusa della riconciliazione nazionale e la pretesa antistorica di una memoria condivisa

Con la scusa di voler dare vita a una non ben precisata riconciliazione nazionale, e con la pretesa antistorica di dar vita a una memoria condivisa, negli ultimi decenni si è assistito da parte di una vasta parte del mondo politico e intellettuale, a un vero e proprio attacco, sotto varie forme, alla storia e ai valori antifascisti su cui si basa la nostra storia repubblicana e democratica, per cercare di favorire l’imporsi, nella coscienza collettiva, di quello che gli storici chiamano “anti-antifascismo“. Gli esempi si sprecano. Dal ripetuto tentativo (finora sventato) di approvare leggi che riconoscessero lo status patriottico dei militanti nella Repubblica di Salò alla pericolosa pretesa della politica di intervenire sui manuali scolastici di storia alla istituzione della giornata del ricordo delle vittime delle foibe, tragedia vera, si intende, ma presentata come una sorta di puro atto criminale dei comunisti jugoslavi nei confronti dei civili italiani, senza tenere conto del contesto storico in cui prese vita (la violenza antitaliana – esecrabile, ci mancherebbe, ma storicamente ben delineabile  – maturò nel quadro di una reazione, di una vendetta, se si vuole, dei popoli slavi, nella fattispecie sloveno e croato, per le terribili angherie e violenze subite per anni da parte del popolo italiano per il tramite del suo esercito). Sul tema delle foibe, peggio ha fatto Aldo Cazzullo che rispondendo lo scorso 11 settembre a un lettore sul Corriere della Sera ha parlato di «pulizia etnica», rispolverando una definizione utilizzata nel 2007 dall’allora presidente Giorgio Napolitano e che suscitò le rimostranze ufficiali del suo omologo croato, Stipe Mesic, rischiando così un clamoroso incidente diplomatico.

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La responsabilità degli intellettuali

E proprio l’uscita di Cazzullo ci aiuta a capire quanta responsabilità abbiano, nel bene e nel male, opinionisti, critici, intellettuali e in generale personalità pubbliche nel preservare o meno i valori della nostra democrazia. Non a caso, il revisionismo storico ha assunto grande popolarità e, dobbiamo dirlo, forte presa sull’opinione pubblica grazie a una corposa pubblicistica firmata, nel corso degli anni, da illustri giornalisti col pallino della storia, da Indro Montanelli a Mario Cervi, da Giordano Bruno Guerri a Roberto Gervaso a Arrigo Petacco, impegnati con le loro opere a presentare un fascismo dal volto buono. Fino al caso limite di Gianpaolo Pansa che, rovesciando ad arte la realtà, è riuscito nell’impresa di contrapporre a questo fascismo buono una resistenza comunista cattiva e violenta. Se anziché ergersi a guardiani della memoria storica, intellettuali e personalità pubbliche indulgeranno nel favorire una progressiva sfocatura e una ambigua interpretazione della storia, non potranno che provocare nell’opinione pubblica un disorientamento che porterà come conseguenza a uno scadimento nella capacità di discernere ciò che è bene e ciò che è male per la nostra vita democratica. E se questo revisionismo avrà successo, e la guardia si sarà troppo abbassata, allora anche i fascisti della porta accanto non potranno che trarne vantaggio: i loro saluti romani e le squallide esibizioni antisemite esibite goliardicamente dalla lobby nera (milanese in questo caso, ma si potrebbe ricordare anche il caso, sempre di questi giorni, del neo-eletto consigliere comunale di FdI a Trieste, Corrado Tremul, di cui circola in rete una foto che lo immortala a Predappio mentre si esibisce in un impeccabile saluto romano) finiranno col diventare note di colore, e quindi trascurabili, e la loro attività politica potrà trovare ulteriori spazi di espressione. Magari meno goliardica, vedi l’assalto di sabato 9 ottobre alla sede romana della Cgil.

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