Facebook nel mirino per le fake news sulle armi biologiche usate in Ucraina

Camilla Curcio
01/04/2022

Il social ancora accusato di disinformazione. Secondo uno studio, nell'ultimo mese avrebbe consentito la diffusione di bufale circa armi chimiche finanziate dagli Usa e inviate in Ucraina.

Facebook nel mirino per le fake news sulle armi biologiche usate in Ucraina

Come confermato da un recente studio compilato dal Center for Countering Digital Hate (CCDH), pare che Facebook non stia mantenendo la promessa di combattere la disinformazione sulla guerra in Ucraina, consentendo a notizie errate o vere e proprie bufale di raggiungere rapidamente un pubblico di milioni di utenti.

Cosa ha rivelato lo studio del CCDH

Nel report, si legge che il social media avrebbe contribuito a rendere virale una fake news secondo cui gli Stati Uniti starebbero finanziando l’utilizzo di armi biologiche in Ucraina. Una vera e propria teoria del complotto che è riuscita a prendere piede sul web per una grave mancanza della piattaforma: chi di dovere, infatti, non ha segnalato oltre l’80 per cento degli articoli contenenti quest’informazione, etichettandoli come non veritieri o incompleti. Analizzando un campione di post pubblicati tra il 24 febbraio e il 14 marzo nei quali venivano condivisi pezzi costruiti a partire da dati falsi, gli studiosi hanno rintracciato l’effettiva assenza dei claim obbligatori utili ad allertare gli internauti a non fidarsi di quel che leggevano perché incompleto, non verificato o fasullo. «Se i nostri ricercatori sono riusciti a identificare l’errore in poco tempo, mi chiedo perché Meta non possa fare lo stesso», ha spiegato al Guardian Imran Ahmed, direttore del CCDH, «il problema, però, è che abbiamo scoperto che, nella maggior parte dei casi, a teorie del genere viene dato tranquillamente il via libera senza alcun monitoraggio pregresso». 

La responsabilità di Facebook nella diffusione della fake news sulle armi biologiche in Ucraina
Interfaccia di Meta (Getty Images)

Come si è sparsa la notizia

La storia ha iniziato a spargersi con inaspettata velocità nei primi giorni del conflitto, soprattutto tra account affiliati a QAnon, fino ad arrivare a Fox News. La Casa Bianca, ovviamente, ha smentito, pensando alla possibilità che dietro ci fosse lo zampino di Mosca per giustificare l’eventuale utilizzo di munizioni e armamenti chimici contro l’esercito ucraino. Non è bastato: la news ha continuato, imperterrita, a serpeggiare tra profili e gruppi Facebook anche parecchio popolati. Il monitoraggio del team di CCDH è partito proprio da questo repertorio: passandolo in rassegna con il software NewsWhip, hanno individuato 120 articoli, tutti riconducibili a siti web che avevano travisato o, peggio, manipolato le dichiarazioni delle autorità statunitensi.

Dettaglio che, tuttavia, non ha impedito loro di macinare più di 150 mila like e raccogliere un’infinita collezione di commenti e condivisioni. Segno tangibile di un danno ormai irreversibile. Il quadro generale ricavato dall’analisi ha evidenziato ulteriormente la necessità di chiedere a Meta un intervento a tappeto sulle fake news, potenziando le misure utili a tutelare chi naviga. «La propaganda russa ha beneficiato per anni di questa disattenzione di Meta», ha aggiunto Ahmed, «hanno preso provvedimenti contro i canali di Stato ma solo perché messi alle strette e ora continuano a prendere la questione sottogamba, facendosi complici di una narrativa che avvantaggia unicamente il regime di Vladimir Putin».

Stop alla monetizzazione per sradicare la disinformazione 

Per parte sua, Facebook si è tempestivamente difeso dalle accuse, sostenendo che la pubblicazione del CCDH non avesse fatto altro che sminuire gli sforzi del social. «Siamo provvisti del sistema di tracciamento delle fake news più potente del web e i debunker che lavorano per noi, ogni giorno, rimuovono dall’algoritmo decine e decine di menzogne sulla questione delle armi chimiche, in qualsiasi lingua, dal russo all’inglese, fino all’ucraino», ha sottolineato Kevin McAllister, portavoce dell’azienda. Eppure i fatti raccontano una storia diversa. E non solo per Facebook.

Anche Youtube nel mirino

Uno studio di Media Matters for America, infatti, ha acceso i riflettori anche sugli errori di YouTube: la piattaforma non avrebbe soltanto consentito la pubblicazione di migliaia di video sulla teoria delle armi batteriologiche ma ci avrebbe persino guadagnato. Il problema, per gli esperti, sta proprio qui. Mentre alcuni, infatti, credono nella buonafede del social e della sua lotta contro la propaganda, altri sono convinti che la disinformazione continuerà a resistere fino a quando non si smetterà di dare peso alle views e, dunque, a inquadrarla in un modello di business. «Alla fine, l’algoritmo continuerà a darle spazio perché oggetto di discussione e, si sa, i social guadagnano molto di più quando litighiamo tra di noi», ha concluso Ahmed, «sarò drastico ma credo ci sia una sola soluzione possibile: per porre fine a questo circolo vizioso, è necessario annientarne la fonte».