A tenere banco sono ancora le rivelazioni di Frances Haugen. Comparsa martedì davanti al congresso Usa, la 37enne di Iowa City ha fornito infatti rivelazioni importanti circa l’instabilità degli ultimi anni in Etiopia e Myanmar, ribadendo i collegamenti tra la spirale di violenza e Facebook. «Quello a cui stiamo assistendo è solo la l’inizio di una stori lunga e terrificante di cui nessuno pare voler vedere le conseguenze». Secondo la donna, Facebook «avrebbe letteralmente alimentato la violenza etnica». Colpa del mancato controllo del servizio fuori dagli Stati Uniti.
RT to tell @FrancesHaugen:
Thank you for your courage in standing up to Facebook and the lies and hate it spreads!
It’s time to hold Mark Zuckerberg accountable. #FacebookKills pic.twitter.com/COzGF6UY4N
— Sacha Baron Cohen (@SachaBaronCohen) October 6, 2021
Facebook, in Myanmar oltre la metà della popolazione usa il social
In Myanmar, infatti, su una popolazione di circa 53 milioni di abitanti, circa la metà utilizza abitualmente Facebook. Di questi, sono molti coloro che si affidano alla piattaforma come fonte primaria di notizie. Una statistica a cui si aggiunge la scoperta, risalente allo scorso giugno, di Global Witness. L’Ong impiegata nella tutela dei diritti umani. ha denunciato che l’algoritmo del social avrebbe promosso post di incitamento all’odio nei confronti dei manifestanti che si opponevano al colpo di stato militare di febbraio.
“The version of Facebook that exists today is tearing our societies apart and causing ethnic violence around the world,” says former Facebook employee France Haugen. She points to Myanmar, where the military used Facebook to launch a genocide. https://t.co/WU4IumjHkO pic.twitter.com/cy9Ed9MgbH
— 60 Minutes (@60Minutes) October 3, 2021
La ricerca ha avuto origine dal mi piace messo a una fanpage dei militari, evidentemente non giudicata contraria alle policy della piattaforma. Da quel momento, sulla home degli attivisti sono comparse altre pagine simili, strabordanti di post offensivi. «Non è stato impegnativo trovare i contenuti, è stato Facebook stesso a guidarci nel lavoro. Dei primi cinque correlati trovati, tre sponsorizzavano la violanza», ha spiegato Rosie Sharpe, ricercatrice che ha contribuito alla stesura del rapporto. In realtà, il legame tra i post e le atrocità del Myanmar non è una novità. Nel 2018 un’analisi del Guardian aveva rivelato come l’incitamento all’odio fosse esploso sul web fosse esploso in seguito alla crisi del Rohingya dell’anno precedente. Nel mirino era finita la minoranza musulmana, oggetto di migliaia di post firmati da nazionalisti. Questi hanno accumulato grande popolarità online, indipendentemente dal fatto che spesso si trattasse di fake news: un su tutte, l’accumulo di armi all’interno delle moschee. È stata poi un’indagine interne di Facebook a confermare le affermazioni del giornale britannico e l’utilizzo distorto della piattaforma nel Sud-est asiatico.
Facebook, in Etiopia la denuncia del corridore Haile Gebrselassie
Stessa situazione in Etiopia, dilaniata da un conflitto armato tra il governo nazionale e il Fronte di liberazione del popolo del Tigray. La denuncia in questo caso, già nel 2019, era arrivata dalla voce autorevole di Haile Gebrselassie. Il corridore – oro olimpico nei diecimila metri ad Atlanta ’96 e Sydney 2000 – aveva raccontato di essersi imbattuto in notizie false che avrebbero causato la morte di 81 persone nella regione dell’Oromia. Spostando le lancette, si arriva al 2020 e all’uccisione di un popolare cantante di origine Oromo, Haacaaluu Hundeessaa. Dopo la quale sono in rete si sono susseguiti contenuti violenti. L’ultima tappa sulla vicenda, come accennato, è la testimonianza in congresso di Haugen, che ha ribadito quanto pericolosa possa essere l’indicizzazione automatica dei contenuti senza un adeguato controllo. Ma se gli Usa sembrano indietro, l’Europa sta provando a cambiare le cose, attraverso la nuova regolamentazione dei servizi digitali. Il provvedimento, se approvato, costringerebbe i grandi Social a verificare, ed eventualmente eliminare, contenuti potenzialmente dannosi. Una disposizione importante, ma ancora insufficiente, perché darebbe potere di valutazione esclusivamente alle big tech, escludendo una vigilanza esterna.