7 gennaio 2023. Piove a Portofino. Il cielo è grigio e il mare è nero e portatore di disastri. Villa Altachiara, posta sulla cima più alta del promontorio, è spenta. Le persiane sono chiuse, l’immenso parco che la circonda ha l’erba alta e sul grosso cancello che ne delimita l’ingresso la Guardia di Finanza ha posto i sigilli. La misura è la diretta conseguenza delle sanzioni adottate nei confronti degli oligarchi russi presenti in Italia. Si vocifera che il provvedimento riguardi anche una villa ai Parioli di Roma, il capitale sociale di una società con sede a Portofino per un valore complessivo di 57 milioni di euro e che a essere messa sotto sequestro ci sia anche una Porsche 911 turbo. Tutti i beni sopraelencati sono riconducibili a Eduard Yurevich Khudaynatov, considerato uomo molto vicino a Vladimir Putin e inserito nella black list dell’Ue.

Lontana dai rumori e dalla mondanità della piazzetta per raggiungere la villa ci si deve arrampicare lungo un sentiero che parte dall’ingresso del paese e sale fin quassù. Nel periodo in cui ho lavorato alla Gritta ci salivo spesso da queste parti. A volte per passeggiare, altre per rollarmi uno spino in solitudine, oppure per mostrare a qualche ragazza lo splendido panorama che guarda il mare a perdita d’occhio e abbraccia tutto il golfo. In particolar modo quando volevo impressionarne qualcuna, sempre con i wayfarer addosso, accendevo l’arciduca joint, mi facevo scuro in volto e mi mettevo a raccontare l’antica maledizione che aleggiava sulla villa. Costruita nel 1874 e circondata da un parco di tre ettari con tanto di bosco, frutteto, giardino botanico ed eliporto, Villa Altachiara fu fatta edificare nel 1874 dal quarto lord Carnarvon Henry Herbert, perché divenisse la residenza di suo figlio George Edward Stahnope Malyneux Herbert, il quale a causa di una salute molto cagionevole aveva bisogno di climi più miti rispetto a quelli d’Inghilterra. Anni dopo George divenne un celebre egittologo e collezionista d’arte e raggiunse la fama quando scoprì, insieme al collega Howard Carter, il sarcofago di Tutankhamon, il faraone bambino, che si narra sia foriero di disgrazie e persecuzione. L’ammonimento posto sulla tomba del faraone recitava infatti più o meno così: «Il faraone è stato svegliato dal suo sonno eterno e la maledizione ricadrà su coloro che hanno violato il suo riposo». Lord Carnarvon morì circa tre mesi dopo il ritrovamento della tomba, a causa di un’infezione dovuta alla puntura di un insetto, dopo una lunga e lenta agonia in un ospedale del Cairo, mentre qualche tempo dopo sua nipote perse la vita precipitando dalla scogliera di Villa Altachiara. Esattamente la stessa cosa che accadde, 22 anni fa, la notte dell’8 gennaio del 2001, a Francesca Vacca Graffagni, vedova del conte Corrado Agusta, e sulla cui scomparsa si discusse molto. L’opinione pubblica all’epoca si spaccò in due: da una parte quelli che credevano nella disgrazia e dall’altra quelli che pensavano che la contessa fosse stata prima assassinata e poi gettata sulla scogliera. Sullo sfondo cinque testamenti e un’eredità faraonica, pronta per essere spartita tra un bodyguard messicano più simile a uno gigolò che altro, una dama di compagnia e un faccendiere molto noto, tanto alle cronache giudiziarie quanto a quelle mondane. Proprio sul faccendiere ci soffermeremo, qui, raccontando come iniziai a lavorare per lui.
Decisi così di punto in bianco di accettare la proposta. Mi licenziai dal bar in Lambrate, preparai una sacca con i miei vestiti e un costume da bagno e partii per Portofino, anche perché incombeva sulla mia testa sempre più pressante il problema dei soldi: non ne avevo più. Avevo totalmente prosciugato il mio conto al Credit Suisse ed era arrivato il momento di limitare i danni
Durante l’estate del 2006 tutto appariva senza senso. Erano mesi distorti, disturbati. Una serie di disastri e di disordini si erano accumulati attorno a me. La vita stava cambiando per molte delle persone che mi circondavano e alle quali tenevo di più. Mia zia Pia era appena morta. Non facevo altro che tirare a campare dietro al banco di un bar di un locale in Lambrate. L’università si materializzava davanti ai miei occhi sempre più come un’eterna illusione e anche il rapporto con Allegra, che scopavo con veemenza nella mia microscopica mansarda in via Tiepolo fino all’alba, si era trasformato in nient’altro che in una mera allucinazione alcolica. Durante il fine settimana mettevo i dischi in un locale in via Padova, il sabato in un’altro in via Canonica, e alla fine delle serate ero sempre così sconvolto che sempre più spesso i pr dovevano prendermi in spalla e portarmi di peso su un taxi per farmi tornare a casa tutto intero. Intorno a me tutto stava cambiando: DFA stava per sposarsi, Dodo era partito per il Vietnam per fare la sua tesi di laurea, Albertone aveva dato un taglio alle serate e si era iscritto al Cepu, Andrea Dichio si era trasferito a Londra e sia Silvione che Nosama avevano fatto il grande passo di andare ad abitare da soli. Fu così che una mattina di luglio, svegliandomi nel mio stesso vomito (ero ancora una volta andato a dormire vestito), capii che se volevo ancora vivere (cioè se non volevo morire) dovevo fuggire da Milano. Tanto ero bruciato. Venni così a sapere, tramite mio cugino Giorgio, che un suo amico stava cercando un barman che potesse aiutarlo a gestire un locale a Portofino. Il locale in questione era La Gritta, “il bar dei potenti”, e il suo amico era tale Maurizio Raggio, il noto faccendiere di cui sopra, anche meglio conosciuto come l’ex golden boy di Portofino, ex compagno della contessa Vacca Agusta e soprattutto il factotum che secondo alcuni avrebbe custodito e nascosto, durante gli anni di Tangentopoli, il famoso “tesoro” di Craxi.

Decisi così di punto in bianco di accettare la proposta. Mi licenziai dal bar in Lambrate, preparai una sacca con i miei vestiti e un costume da bagno e partii per Portofino, anche perché incombeva sulla mia testa sempre più pressante il problema dei soldi: non ne avevo più. Avevo totalmente prosciugato il mio conto al Credit Suisse ed era arrivato il momento di limitare i danni. La mia vita si era trasformata in una barzelletta fin troppo ripetitiva che non divertiva più nessuno. Il desiderio di far parte della scena era completamente svanito e inoltre non conoscevo più nessuno in grado di comprendermi (a parte forse DFA). Fu in quella mattina di luglio che mi resi conto di essere totalmente solo e completamente immerso in un mare di merda. Portofino fu come costruire un forte intorno a me che potesse proteggermi. Fu preparare mojito e cocktail martini tutte le sere. Fu imparare ad avere disciplina. Fu disintossicarsi quasi completamente. Avevo 26 anni e non tutto ancora era perduto. Cominciai a cambiare. Che importanza aveva mettere i dischi nel locale giusto e strafarsi fino alle sei del mattino? A Portofino, nonostante il ritmo di lavoro folle, ero finalmente rilassato. Lì tutto era diverso: il ritmo delle giornate, lo status sociale, il mare, la luce nel cielo. Semplicemente non avevo più bisogno di atteggiarmi a rockstar e di colpo incontrare qualcuno che conoscevo e preparargli da bere non mi sommergeva più di rimpianti come mi sarei aspettato. A Portofino per un po’ non ebbi più problemi. Mi trasferii a vivere in una barca a vela ormeggiata in porto, conobbi Marcellina, una ragazza con la quale iniziai a uscire che mi tolse dalla testa la relazione tossica con Allegra, ospitai uno dopo l’altro alla fine di agosto una serie di amici che mi vennero a trovare. Prima Silvione, poi il drugo Fede e alla fine Nosama. Un giorno, alla fine di settembre, con Marcellina ci arrampicammo su per il sentiero che portava a Villa Altachiara. Ci sedemmo su una panchina uno di fianco all’altra e ricordo che osservando l’orizzonte e sentendo il profumo del mare improvvisamente trattenni il fiato e sentii una lacrima scendermi sul volto. Con stupore, mi resi conto di essere felice. Ma al termine di quell’estate tutto ciò che avevo imparato cominciò a svanire. Ancora una volta.
Lì tutto era diverso: il ritmo delle giornate, lo status sociale, il mare, la luce nel cielo. Semplicemente non avevo più bisogno di atteggiarmi a rockstar e di colpo incontrare qualcuno che conoscevo e preparargli da bere non mi sommergeva più di rimpianti come mi sarei aspettato. A Portofino per un po’ non ebbi più problemi
I pensieri di quell’estate vengono di colpo spazzati via dalla vibrazione del mio iPhone, messo al centro di un tavolo di un bar, su una chiatta di fianco alla piazzetta di Portofino, in attesa che io risponda, in questo pomeriggio, nel giorno dell’Epifania, mentre con Ofelia, sotto un cielo torvo, ci dividiamo due succulenti Bloody Mary parlando del più e del meno – organizzando viaggi a Venezia, Tangeri, Parigi – e programmando il nostro futuro. Io indosso un cappello in feltro di coniglio, a tesa larga, color blu cobalto e una camicia oxford a righe bianche e azzurre BD Baggies, comoda come fosse una t-shirt, sotto una giacca marinara, aperta sul petto, color blu notte. Ho ancora in testa quel momento con Marcellina di molti anni prima, davanti al cancello di Villa Altachiara, nel momento in cui rispondo in stato confusionale.
«Pronto?». Sento qualcuno respirare.
«Pronto?».
«Andrea?», dice una voce debole
«Sì, chi parla?».
«Sono tuo fratello. Stefano. Dove sei? A Cortina?».
«Ciao brother, no. Sono a Portofino. Sai che ho sempre odiato la montagna. Come stai?».
«Io bene, sono a casa nostra a Moltrasio». E lo dice in un modo così spaventoso che devo ricompormi, prima di tornare a fingermi stupido.
«Casa nostra?».
«Sì, è successo un gran casino, tutti parlano dei tuoi racconti. Gli zii ti vogliono denunciare. Volevo dirtelo».
«Ma con chi sei, brother?».
«Siamo un mucchio di persone».
*Persone e fatti sono frutto di fantasia.