Vedremo se sarà «l’astro nascente della sinistra», come vaticinato dal Guardian, o una stella già cadente. In ogni caso Elly Schlein è forse l’occasione (l’ultima?) che il Partito democratico può darsi per uscire dal coma elitario ed elitista in cui è piombato quasi subito dopo la sua nascita. Non che lei, all’anagrafe Elena Ethel Schlein, sia esattamente una figlia del popolino: il padre era un illustre accademico e politologo americano, il nonno materno era invece il senatore socialista senese Agostino Viviani, fiero antifascista. Ma la pasionaria Elly sembra avere le carte in regola per ristabilire quella connessione di sentimenti con la sinistra e, auspicabilmente, con il Paese reale che al Nazareno hanno smarrito da almeno due lustri.

La folgorazione per Barack Obama
A 37 anni, Schlein mostra la freschezza di una poco più che 20enne in mezzo ai brontosauri dem. La aiutano la sua biografia e le antenne dritte all’ascolto di quel magma di proteste e movimenti giovanili cui il Pd ha voltato da tempo le spalle (paradigmatico è il modo in cui Laura Boldrini ha liquidato le ragazze di “Non Una di Meno” che la contestavano). Nata a Lugano e titolare di una tripla cittadinanza italiana, americana e svizzera, la neodeputata ha radici ben piantate nelle tragedie vecchie e nuove d’Europa: il nonno paterno, Harry Schlein, emigrò negli Stati Uniti da una famiglia ebraica aschenazita, originaria della città ucraina di Leopoli, all’epoca parte dell’impero austro-ungarico. E giunti a Ellis Island, i suoi avi modificarono il cognome originario, Schleyen. Il fratello di Elly, Benjamin, è un fisico teorico, mentre la sorella Susanna è diplomatica. Lei invece si definisce «la pecora nera della famiglia»: concluse le scuole superiori a Lugano, decide di trasferirsi in Italia, il Paese della madre, e a Bologna si laurea in Giurisprudenza dopo un anno di Dams, prendendo il massimo dei voti su due tesi dedicate alla criminalizzazione dei migranti in carcere e ai diritti dello straniero nella giurisprudenza costituzionale. Appassionata di rock americano, musica pop vintage e videogiochi, Elly inizia a suonare il pianoforte a cinque anni, ma la sua vera fissa diventa presto la chitarra elettrica. Già da studentessa universitaria, mentre Veltroni inaugura contro Berlusconi la sfilza di elezioni perse dal Pd, si trasferisce a Chicago come volontaria per la campagna elettorale di Barack Obama. Di lì la sua «passione per la comunicazione politica», come dice lei stessa, e «per costruire campagne “grassroot”, fatte a filo d’erba». Tale è l’infatuazione per il primo presidente nero degli Stati Uniti che Schlein tornerà poi negli Usa nel 2012, da poco laureata, per la campagna della rielezione di Obama. Nel frattempo, a Bologna fonda l’associazione studentesca universitaria Progrè, focalizzata sulle politiche e sui temi migratori. Da innamorata del cinema, invece, lavora al documentario Anija-La Nave di Roland Sejko, che racconta la fuga di migliaia di persone sulle navi dall’Albania verso l’Italia.

Da #OccupyPd all’Europarlamento fino alle Regionali in Emilia-Romagna
Schlein è tutt’altro che una figura organica al partito del Nazareno. Ma ne conosce bene i vizi. Sempre nel 2013, dopo l’imboscata dei 101 che fanno fuori Prodi per la corsa al Quirinale, lei fonda e anima il movimento #OccupyPD contro – curiosi corsi e ricorsi storici – la nascita a tavolino del governo di larghe intese guidato da (toh!) Enrico Letta. Quelli sono gli anni della grande intesa con Giuseppe Civati, il “gemello diverso” di Matteo Renzi alla prima Leopolda: Schlein ne sostiene la candidatura a segretario del Pd, viene eletta come esponente della corrente civatiana nell’assemblea e nella direzione nazionale del partito, e con lui gira persino una video inchiesta sui fondi italiani non dichiarati in Svizzera. Ma la scalata è appena all’inizio: nel 2014 la ragazza terribile diventa europarlamentare dem con una campagna definita “slow foot”, tutta puntata sulla sostenibilità. Anche a Bruxelles continua a occuparsi di diritti civili, giustizia fiscale, legalità, conversione ecologica e parità di genere. Intanto Renzi diventa capo del governo facendo fuori Letta, lei annuncia l’addio al Pd e l’adesione a Possibile dello stesso Civati. Le cose però non funzionano; così nel 2019 avviene pure il divorzio da “Pippo”. Il resto è storia recente: in quell’anno Schlein non si ricandida alle Europee, decide di andare da sola e nel 2020 si presenta alle Regionali in Emilia Romagna con la lista spiccatamente di sinistra “Coraggiosa”, incassando più di 22 mila preferenze. A quel punto il governatore Stefano Bonaccini la chiama per il ruolo da vicepresidente con delega al Welfare e al Patto per il Clima. Infine arrivano le dimissioni anticipate, la campagna elettorale per le Politiche del 25 settembre accanto allo stesso Letta e l’elezione alla Camera.

Una papessa straniera al Nazareno?
Ora, però, viene il difficile. Il “fenomeno Schlein” sembra incarnare il volto nuovo di una sinistra che intercetta i temi della sostenibilità coniugati alla lotta alle disuguaglianze. “Elly tutta pepe” è impegnata in politica fin da adolescente, ha assediato il Pd prima delle Sardine e mentre queste ultime sono finite sottolio, lei ancora combatte. «Ha avuto un consenso personale sia alle Europee che alle Regionali senza farsi spingere da nessuno», osserva qualcuno al Nazareno. Ed è roba davvero esotica da quelle parti. Però tentare la corsa al vertice è un’altra storia, significa nuotare in mezzo agli squali e alle correnti che possono travolgere chiunque. Dopotutto si sa che il Pd è come Crono che divora i suoi figli-segretari (Letta è il decimo in 15 anni) e Schlein è comunque percepita come una sorta di “papessa straniera”. Euromedia Research prevede che potrebbe giocarsela alla pari nel derby con il già candidato Bonaccini, ma altre rilevazioni ne ridimensionano le ambizioni. La soluzione del ticket, con lei a far da vice dello stesso governatore emiliano, deluderebbe invece ampi strati della sinistra del partito, in cerca di riscossa.
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Lo spettro del radical-chicchismo
Dichiaratamente bisessuale, in passato ha inseguito e affrontato a muso duro Matteo Salvini per lamentarsi dell’assenza della Lega in Europa quando c’era da spingere la riforma migratoria dei trattati di Dublino. E va forte sui social, rara avis dalle parti del Nazareno. Ma questo potrebbe non bastare. La nomenclatura dem non ama chi non è facilmente omologabile alle sue logiche e Schlein andò controcorrente anche quando si schierò per il “no” al referendum targato M5s sul taglio dei parlamentari. Ha confidenza con la parola “conflitto” in termini sociali e ciò depone bene in seno a un partito cloroformizzato dal suo eterno “senso di responsabilità” verso il Paese. Per i maligni, invece, biografia e parole d’ordine ne fanno l’ennesima radical chic che pone più l’accento sulla difesa dei diritti civili, mentre in questa fase l’elettorato avverte soprattutto l’urgenza di tutele economiche, posto che gli uni non escludono mai le altre. In effetti, affermare che le battaglie sociali «sono ormai intersezionali» può dare un effetto di straniamento a chi vive dalle parti di Fuorigrotta o Tor Bella Monaca e tendenzialmente non conosce le teorie dell’attivista americana Kimberlé Crenshaw. Tuttavia, a onor del vero, va detto che la rottura di Schlein con Renzi si consumò soprattutto sul lavoro e sul Jobs act (oltre alla “buona scuola” e l’Italicum). E in ogni caso la neoparlamentare farebbe sempre in tempo a ricalibrare profilo e messaggi se dovesse mai tentare l’impresa disperata, forse un supplizio di Tantalo, di risollevare le sorti dem.

L’annosa questione di genere che affossa i dem
Infine c’è la ferita della questione di genere che sanguina nel Pd proprio mentre la destra si accinge a portare la prima donna a Palazzo Chigi. Il ceto politico di sinistra, fermo ancora alla leadership di Nilde Iotti, ha sussultato quando Schlein sul palco della chiusura della campagna elettorale ha gridato: «Sono una donna. Amo un’altra donna e non sono una madre, ma non per questo sono meno donna». Una sfida diretta a Giorgia Meloni, mentre le gerarchie dem in rosa masticano amaro dietro le quinte e una fonte Pd dice a Tag43: «Fratelli d’Italia ha saputo mettere in piedi una leadership femminile, noi non pareggiamo certo il conto piazzando una donna a capo del partito»; come a dire che non basterebbe nemmeno eleggere l’irrequieta Elly segretario. Sarà, ma in ogni caso rappresenterebbe un gran passo avanti per gli eredi del Pci che si vantano di coltivare la cultura della parità di genere e poi mandano tre ministri uomini su tre nel governo Conte 2 e hanno una rappresentanza in rosa nel nuovo Parlamento ancora inchiodata al 30 per cento. Ecologista, progressista, femminista con piglio d’antan: Schlein diventerà davvero la Alexandria Ocasio-Cortez de noantri? Vedremo. Ammesso e non concesso che ormai non sia fatica sprecata in un partito che forse non sopravvivrà a se stesso.