Recep Tayyip Erdogan ha sfiorato la vittoria al primo turno nelle elezioni turche più in bilico degli ultimi vent’anni, ottenendo il 49,51 per cento delle preferenze. Per attendere la riconferma come presidente della Turchia deve ancora attendere il ballottaggio del 28 maggio, che lo vede di fronte al rivale Kemal Kilicdaroglu, leader dell’opposizione rimasto inchiodato al 44,89 per cento dei voti. La vittoria, per quanto non certa, sembra vicina. «La nostra nazione ha rivendicato il suo libero arbitrio, nonostante l’ingerenza politica dell’opposizione, della Pennsylvania, i social media e le copertine delle riviste straniere», ha twittato Erdogan esprimendo soddisfazione per il risultato delle urne e attaccando allo stesso tempo gli Stati Uniti: in Pennsylvania vive in esilio dal 1999 Fethullah Gülen, l’uomo accusato dal presidente turco di essere la mente del fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016.

Da un decennio Erdogan punta al controllo di ciò che viene scritto sui social
Erdogan accusa di interferenze Washington (che respinge gli attacchi), ma come scrive Politico lo stesso presidente turco ha usato metodi non esattamente ortodossi per provare a conquistare la riconferma, mai tanto in dubbio quanto in questo 2023. In occasione del weekend in cui i turchi sono stati chiamati alle urne – rispondendo in massa, affluenza record – il governo di Erdogan ha chiesto e ottenuto da Twitter di bloccare gli account di una dozzina di esponenti dell’opposizione, mossa che ha innescato una reazione contro Elon Musk per aver rispettato la direttiva di Ankara. Ma è stata, per così dire, la punta dell’iceberg: è almeno un decennio che Erdogan sta facendo di tutto per “moderare” ciò che viene scritto sui social media in Turchia.
In response to legal process and to ensure Twitter remains available to the people of Turkey, we have taken action to restrict access to some content in Turkey today.
— Twitter Global Government Affairs (@GlobalAffairs) May 13, 2023
Le regole varate a ottobre sulla falsariga del Digital Services Act
A ottobre il suo partito Akp ha approvato una serie di regole sui social media che, in parte, rispecchiavano il Digital Services Act, regolamento dell’Unione europea varato negli stessi giorni per limitare contenuti illegali, fermare la diffusione della disinformazione e aumentare la trasparenza. Le norme dell’Ue prevedono multe fino al 6 per cento delle entrate di un’azienda, in caso di illeciti. Il regolamento turco imita parola per parola il linguaggio politico di Bruxelles.

Elezioni, terremoto, attentato di Istanbul: quando il governo ha silenziato le voci contro
Ma Ankara applica le limitazioni in modo diverso: l’obiettivo, non dichiarato ma palese, è la permanenza di Erdogan al potere tramite la repressione del dissenso. Sono previste per esempio pene detentive fino a cinque anni per gli utenti che pubblicano contenuti online che diffondono «informazioni imprecise» in grado di «turbare la sicurezza interna ed esterna della Turchia». Allo stesso modo, i giornalisti rischiano il carcere per aver scritto storie che possano mettere in cattiva luce l’Akp, al potere in Turchia. Tra le persone oggetto di denuncia figura già Kılıçdaroğlu, che potrebbe finire a processo per aver diffuso «notizie false» sul governo di Erdogan. Andando a ritroso, a seguito del devastante terremoto del 6 febbraio le autorità turche hanno arrestato 78 persone colpevoli di aver condiviso «post provocatori» su Twitter. Prima ancora, dopo l’attentato di Istanbul di novembre avevano momentaneamente bloccato l’accesso alla piattaforma. Ma sono appunto almeno 10 anni che il governo di Erdogan sta adottando metodi del genere, per reprimere le voci ostili.

Altro che Ue: per libertà online la Turchia somiglia più a Russia e Arabia Saudita
Citando il Digital Services Act – e non solo – il governo di Ankara ha respinto più volte le accuse di voler prendere il controllo dei social media per il proprio tornaconto politico. Leggi simili a quelle turche «sono in fase di attuazione in molte parti del mondo, specialmente nei Paesi sviluppati», ha dichiarato l’İletişim Başkanlığı, ossia l’Ufficio per le comunicazioni istituito nel 2018, mistificando però la realtà. Di fatto, la legislazione della Turchia si avvicina molto di più a quello di Arabia Saudita e Russia (dove chi diffonde “falsità” online rischia fino a 15 anni) che a quella dell’Ue. Quantificare l’impatto delle nuove regole sulle elezioni del 14 maggio è impossibile. Di sicuro, il piatto della bilancia pende ora dalla parte di Erdogan più di quanto avessero pronosticato gli analisti alla vigilia del voto.