Enrico Letta è la prima vittima del risultato delle urne. Il leader dem, rimasto in silenzio nella notte elettorale, nella conferenza stampa del giorno dopo ha annunciato che al congresso della prossima primavera non si ricandiderà alla segreteria. Letta ha ricordato gli obiettivi che si era dato accettando la leadership a marzo dello scorso anno: «Tenere unito il Pd, salvandolo dalla disgregazione» – obiettivo a suo dire raggiunto, visto che i dem sono «il primo partito di opposizione» – e «preparare una legislatura in cui vincessero i valori progressisti e democratici». Missione quest’ultima evidentemente fallita. Anche per l’aborto del progetto di campo largo «non per colpa nostra», ha tenuto a precisare ricordando il fuoco amico di Carlo Calenda e di chi si è sfilato dall’accordo.
Il passo indietro di Letta non risolve i problemi strutturali del Pd
Resta da capire però se senza Letta il Pd abbia davvero la forza di rinnovarsi e ripensarsi. Le scelte e la strategia politica rovinosa dei dem sono state decise collegialmente. In teoria, dunque, dovrebbe prevalere la linea del ‘chi è senza peccato scagli la prima pietra’. Va detto che il Pd è specializzato in “analisi delle sconfitte”. La ‘non vittoria’ di Pierluigi Bersani è significativa dello stile della ‘ditta’: cambio al vertice e ripartenza. Sì, ma come? E con chi? Non che i nomi manchino. Al Nazareno sono in parecchi ad aspirare alla segreteria e non da oggi: da Matteo Ricci, sindaco di Pesaro, a Stefano Bonaccini presidente della Regione Emilia-Romagna. Si fa il nome anche del vice di Letta, Peppe Provenzano ma anche della vice di Bonaccini in Regione Elly Schlein. Questa volta, però, la strada è davvero in salita. La verità è che siamo di fronte alla crisi strutturale di un progetto politico e di un partito che da quando è nato ha governato 10 anni su 15, pur avendo perso (o non vinto) tutte le elezioni politiche. Cosa che Letta in conferenza stampa ha definito chiaramente «un limite».

Il confronto con il M5s è inevitabile
Nel ripensamento del Pd il M5s si conferma convitato di pietra. La chiusura dell’alleanza dopo la caduta del governo Draghi ha pesato e non poco. Ora emergono timidi ripensamenti, ma fuori tempo massimo. Tipo le parole dell’ex ministro Francesco Boccia, che in vista delle passate Amministrative aveva letteralmente consumato la suola delle scarpe per lavorare all’asse Pd-M5s e che ora accenna a una «nuova stagione» che potrebbe aprirsi con i pentastellati. Dare per morto il partito di Conte – succedeva alla vigilia della campagna elettorale – è stato il primo errore della segreteria piddina al completo. Ma ci sarà qualcuno ai vertici in grado di riconoscerlo? Onestà intellettuale vorrebbe che si ammettesse tanto per cominciare che il M5s primo partito al Sud spazza via persino la forza politica di governatori di peso quali Michele Emiliano in Puglia e Vincenzo De Luca in Campania.
Gli errori strategici del Nazareno
La presa del Pd – ma è davvero una magra consolazione – rimane nelle Ztl delle grandi città. Anche qui, però, c’è poco da festeggiare, visto che i dem sono tallonati dal tandem Carlo Calenda-Matteo Renzi. Ci sarà qualcuno in grado di alzare la mano in Direzione e riconoscere, come pure qualche esponente Pd ha ammesso con Tag43 parlando di un «Pd da superare», che il partito ha finito col bloccare l’intero sistema? La convivenza coatta tra moderati e sinistra ha inibito da un lato la nascita di un soggetto centrista che giocasse un ruolo da ago della bilancia e dall’altra la formazione di un forte soggetto progressista. In più il Nazareno è stato il bastione di quei governi tecnici che hanno finito per allontanare gli elettori dalle urne, come dimostrano i dati di astensione dopo gli esecutivi Monti e Draghi. Insomma, l’elenco delle responsabilità e degli errori in casa dem è lungo e sarebbe altamente deleterio ignorarlo. Nascondere la polvere sotto il tappeto con processi sommari e con un solo imputato, infatti, non farebbe altro che prolungare l’agonia di questa forza politica. Per dirla tutta, però, se Atene piange, Sparta non ride. Anche Articolo uno di Roberto Speranza, che si è accomodato nella lista progressista rinunciando a qualsiasi ambizione di dar vita a un’area di sinistra ben connotata e riconoscibile, ha le sue colpe. Pierluigi Bersani, infatti, dopo aver predicato per mesi il dialogo con Giuseppe Conte, alla fine, si si è acconciato ad andare in giro per comizi con Enrico Letta. Il tempo stringe. A breve ci sarà un’altra prova su cui misurarsi e cioè le elezioni per la guida della Regione Lazio, con l’alleanza Pd-M5s che rischia di naufragare così come è successo in Sicilia, dove gli exit poll danno per vincitore il candidato del centrodestra Renato Schifani. Insomma non c’è tempo da perdere. In generale si vedrà se gli ipotetici cinque anni di traversata nel deserto che lo aspettano potranno rigenerare un partito geneticamente incapace di stare all’opposizione, o saranno la tomba del Nazareno.