Il 10 ottobre l’Iraq va alle urne per la sesta volta dal 2003, anno della caduta di Saddam Hussein in seguito all’invasione statunitense. Le elezioni parlamentari, anticipate di un anno per accontentare i manifestanti che, dal 2019, protestano contro la dilagante corruzione nelle istituzioni, potrebbero però non portare quel cambiamento che la popolazione vuole. A complicare il tutto, un sistema istituzionale che a molti non va più giù: la muhasasa, la ripartizione delle prime tre cariche istituzionali su basi settarie, costruito sul modello libanese. Il Presidente della Repubblica deve essere un curdo, il primo ministro uno sciita, il Presidente del parlamento un sunnita.
Un sistema che funziona come consuetudine, perché la costituzione formalmente non lo prevede, ma che in 18 anni invece di favorire equilibrio, ha prodotto una struttura clientelare in cui ormai la corruzione è presente a tutti i livelli dello Stato. L’elevatissimo tasso di disoccupazione (non lavora il 40 per cento dei giovani, che costituiscono la maggioranza della società irachena), il crescente numero di persone finite sotto la soglia di povertà e i problemi portati dalla pandemia, insieme anche alla carenza o inefficienza dei servizi di base, completano un quadro desolante in cui le elezioni, in un certo senso, sono viste come inutili. Gli iracheni scesi in piazza per quasi due anni contro l’ex primo ministro Adel Abdul Mahdi volevano democrazia e libertà, non un voto che non cambierà di una virgola il desolante scenario politico.
Entrato in carica nell’ottobre 2018 come indipendente, Mahdi ha represso nel sangue le proteste di piazza nate l’anno successivo – esattamene per i motivi elencati prima – e guidate dal movimento Tahwra Tishrin (“Rivoluzione d’ottobre”). Negli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine morironoo 600 persone, con oltre 8 mila feriti, e Mahdi fu costretto a rassegnare le dimissioni. Al suo posto, il Presidente della Repubblica Bahram Salih nominò Mustafa al-Kadhimi, sempre come indipendente. Ex giornalista, oppositore di Saddam Hussein e per questo a lungo esiliato all’estero, al-Kadhimi è stato per quattro anni direttore dell’intelligence irachena, e a lui è spettato il compito di traghettare il Paese alle elezioni. Non si è candidato per questa tornata elettorale, ma non è detto che il suo nome non possa rispuntare a urne chiuse per guidare un governo di coalizione.

Elezioni in Iraq, i principali protagonisti
Proprio perché il malcontento non è solamente diffuso tra la popolazione civile, ma anche tra la classe politica, alcuni partiti importanti hanno deciso di boicottare le elezioni. È così per il Partito comunista iracheno, che pur facendo parte della coalizione parlamentare più numerosa dell’assemblea, ha deciso di non presentarsi. E sembrava potesse non parteciparvi nemmeno il leader di quella coalizione, Muqtada al-Sadr, un’importante figura religiosa sciita. A fine luglio aveva annunciato che non si sarebbe presentato, invitando gli elettori a non recarsi alle urne e paventando il rischio per il Paese di finire «come l’Afghanistan» Poi ha però fatto marcia indietro e deciso di candidarsi lo stesso, sebbene senza l’importante supporto dei comunisti.
In un voto che si preannuncia – come è stato finora – determinato soprattutto su basi etniche e religiose, è interessante capire chi sono i principali protagonisti dei diversi gruppi della società irachena. Tra gli sciiti si sfidano proprio al-Sadr, che al momento sembra il favorito, l’ex primo ministro Nuri Al-Maliki (2005-2014) alla guida della State of Law Coalition e Fatah, il partito delle milizie sciite filo-iraniane accusate di essere tra le principali responsabili dei massacri di piazza. Nelle proteste del 2019, infatti, accanto forze dell’ordine ed esercito agirono anche loro.

Più difficile da decifrare l’orientamento dell’elettorato sunnita, che alle proteste di piazza non ha quasi mai partecipato per paura della repressione ai suoi danni. Nel corso degli anni della dittatura, Saddam Hussein favorì grandemente la minoranza sunnita cui apparteneva, e dopo la sua caduta sono iniziate le violenze da parte della maggioranza sciita, che rappresenta oltre il 60 per cento della popolazione. Da capire come voteranno perché nelle loro aree, quelle in passato occupate dall’Isis (Falluja, Mosul), la ricostruzione dopo il passaggio dello Stato islamico non c’è stata. A rappresentarli, l’imprenditore milionario Khamis al-Khanjar e lo speaker del parlamento al-Halboulsi. Quanto ai curdi, che rappresentano circa il 10 per cento degli iracheni, le scelte sono tra il Pdk (Partito democratico curdo, centrodestra) dello storico leader Massud Barzani, e l’Ukp (Unione patriottica del Kurdistan, socialdemocratici) dell’ex Presidente Jalal Talabani. I consensi di entrambi, però, sono in calo da un po’.
Difficile pensare che possano ottenere risultati soddisfacenti le tre formazioni politiche legate al movimento Tishrin: per un sondaggio del Washington Institute for Near Eastern Policy più del 38 per cento degli elettori li sosterrebbe, ma il pesante astensionismo e il basso numero di candidati registrati, solo 99 su oltre 3 mila, potrebbero giocare a loro sfavore.
Le elezioni in Iraq e gli osservatori internazionali
Per provare a rassicurare partiti e popolazione sulla serietà del processo elettorale, il premier al-Khadimi ha approvato la supervisione delle operazioni da parte di 100 osservatori delle Nazioni Unite, e di 130 dell’Unione europea. La missione dovrà stilare un rapporto che contribuisca a migliorare il quadro della politica irachena attraverso una attenta valutazione della campagna elettorale. Al-Khadimi ha definito questo voto «fatidico e decisivo»: da vedere se i risultati gli daranno ragione.