Con un anno di ritardo, sono partite in Etiopia le votazioni per il rinnovo delle assemblee federali e regionali, e di alcune municipalità molto importanti. Si tratta di un primo banco di prova elettorale per Abiy Ahmed, il premier del Partito della Prosperità (riformista) in carica dal 2018, inizialmente molto apprezzato – anche dalla comunità internazionale – per gli sforzi fatti per la pace con l’Eritrea, in guerra con Addis Abeba dal 1998. Nel tentativo di giungere a un accordo definitivo con Asmara, Ahmed ha rinunciato alle rivendicazioni territoriali nella zona di Badme, ha concordato la riapertura delle ambasciate e dei commerci con l’altro Paese, ha sostenuto l’applicazione degli accordi di pace promossi dall’Onu nel 2000, in base al quale l’Etiopia avrebbe perso alcuni territori. Non solo: da quando è è diventato primo ministro, Ahmed ha fatto della parità di genere un suo cavallo di battaglia, scegliendo un governo con il 50% di ministri donne. E, poco dopo la sua elezione, il Parlamento di Addis Abeba ha eletto la prima Presidente della Repubblica donna dell’intero continente africano, Sahle-Work Zewde.
June 21, 2021 is a historic day for #Ethiopia. All sections of society have gone out to cast their voice in our nation’s first free & fair election. Pictures are a thousand words and they show the earnestness, commitment to peace and the democratic process, by our people. 1/3 pic.twitter.com/0DImepJQZW
— Abiy Ahmed Ali 🇪🇹 (@AbiyAhmedAli) June 22, 2021
La figura di Ahmed è stata importante per vari motivi: innanzitutto, è stato il primo premier oromo, il più numeroso – ma anche il più discriminato – gruppo etnico della nazione. Ma poi ha continuato, dopo aver preso il posto di Hailé Mariàm Desalegn (di etnia tigrina), la difficile pacificazione di un Paese scosso da anni di proteste, repressione e morti. Con lui si è proceduto alla liberazione di alcuni prigionieri politici, si è messo fine allo stato di emergenza e sono stati licenziati i funzionari delle carceri accusati di aver violato i diritti umani. Inoltre, fu abolito il divieto di creare nuovi partiti. Ahmed si è presentato agli etiopi come colui il quale avrebbe guidato la sua gente alla riconciliazione nazionale. E, quest’anno, è stato il premier che ha dato al Paese le «prime elezioni libere» della sua storia, come ama ripetere.
Etiopia, una realtà molto complessa
In teoria, questo basterebbe a parlare di “nuovo corso”, “rinascita” e di tutti i termini che solitamente si utilizzano in questi casi. Le cose, però, sono rapidamente cambiate. A fine 2020 l’Etiopia è tornata al centro del dibattito pubblico internazionale, ma non per altre riforme o svolte democratiche. Il governo di Ahmed, il 4 novembre, ha infatti iniziato un attacco militare sul Tigrè, la regione più a nord del Paese al confine con l’Eritrea. L’operazione è nata dopo che, per mesi, tra il governo e il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (Fplt) c’erano state tensioni, culminate – secondo l’esecutivo – in un assalto a una caserma per sequestrare armi e risorse militari. Dopo aver messo fine a un lungo stato di emergenza con il suo avvento al potere, Ahmed ne ha dichiarato un altro della durata di sei mesi all’inizio delle operazioni dell’esercito. In poco tempo le truppe etiopi sono riuscite a conquistare Macallè, la capitale della regione.
Le tensioni erano nate perché nella regione, lo scorso 9 settembre, si erano tenute delle elezioni regionali nonostante fossero state rinviate in tutto il Paese. Il governo aveva dichiarato il voto illegittimo, mentre la nuova leadership del Tigrè ha risposto che non avrebbe riconosciuto il potere dell’esecutivo di Ahmed sulla regione. Addis Abeba ha così tagliato i fondi alla regione, minandone l’autonomia.
Le operazioni dell’esercito partono da qui. Ma le tensioni sono addirittura più profonde: preso il potere nel 2018, Ahmed ha tentato di unire il suo Partito della Prosperità con il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf), di cui fa parte anche il Fplt, che però ha rifiutato la fusione ed è uscito dalla coalizione. I tigrini, bisogna sottolinearlo, hanno avuto il potere in Etiopia per quasi 30 anni a partire dal 1991. Nel conflitto, durato teoricamente un mese, era intervenuta anche l’Eritrea, ufficialmente dopo l’aggressione da parte delle truppe tigrine. Solamente a marzo, l’Etiopia ha ottenuto il ritiro delle truppe di Asmara dalla regione, ma nel frattempo per mesi si sono consumate violenze disumane nei confronti della popolazione, come ha riportato anche Amnesty International.
Le elezioni in Etiopia e il clima teso
In questo clima decisamente poco sereno, parte dell’Etiopia è tornata al voto. Lo scrutinio non coprirà l’intero territorio nazionale, perché le urne non sono state aperte nel Tigré e in parte dell’Oromia, del Benishangul e nel sud, zone in cui le elezioni sono state rinviate a data da destinarsi. Ma non è stato sereno nemmeno il percorso che ha portato la popolazione al voto, perché le forze di opposizione hanno denunciato a più riprese irregolarità e violenze nei loro confronti: le formazioni Oromo Liberation Front (Olf), Oromo Federalist Congress (Ofc) e Ogaden National Liberation Front (Onlf) si sono ritirate dopo che i loro leader erano stati arrestati (si noti che due di questi partiti sono nazionalisti Oromo, stessa etnia del presidente). Altre formazioni politiche hanno denunciato le intimidazioni e l’ostruzionismo subiti dai loro candidati. Le urne dovrebbero dare un esito scontato – sulla vittoria del Pp – non solo per questi motivi, ma anche perché il presidente – nonostante tutto – gode di un consenso largo tra fasce abbastanza ampie della popolazione. Il suo obiettivo, dichiarato già nel 2019, è di rendere il sistema politico etiope più libero dalla divisione in fasce etniche, e questa tornata elettorale potrebbe consentirgli di “creare” una classe dirigente che ricalchi questa idea. Alla finestra, un Paese che vorrebbe solo vivere in pace.