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L’unione fa la farsa

Dopo ogni elezione ritorna la sindrome del tutti dentro, ovvero la coalizione unica che metta insieme le anime e i cespugli della sinistra. Un’idea fortemente sconsigliata dalle esperienze pregresse.

23 Ottobre 2021 16:0024 Ottobre 2021 10:14 Giulio Cavalli
Dopo ogni elezione, specie se vinta dalla sinistra, si ripropone il tormentone di una mega coalizione che racchiuda tutti

Chissà se Lorenzo Jovanotti nella sua giovanile e debordante ingenuità avrebbe mai potuto immaginare che il verso di una sua canzone diventasse perseverante programma politico che ciclicamente ritorna. Solitamente accade così: una parte politica (il centrosinistra più spesso) vince una tornata elettorale, le amministrative nel caso specifico. Vince (anche questo ormai è un genere letterario) perché dall’altra parte sono talmente scassati da non mettere insieme un mazzo di candidati che eviti di dire una castroneria al giorno, di farsi beccare con qualche grottesco nostalgico nelle liste, in una sola parola di di litigare. Una presunta coalizione politica che si fa opposizione in Parlamento, d’altronde, è già un capolavoro di fantasia. Non ha tutti i torti Salvini che si lamenta di un tran tran familiare con Giorgia Meloni così difficile da governare.

Ma dicevamo, il centrosinistra vince le amministrative e si coglie la sensazione che circoli perfino un po’ di stupore. Ci si aspetterebbe che la sonante vittoria sia il primo passo di un rafforzamento delle posizioni, di un maggiore convincimento delle proprie azioni, invece arriva regolare la sindrome del tuttodentrismo. Poiché abbiamo vinto – dicono – perché non proviamo a vincere di più mettendoci tutti insieme? Il tuttodentrismo è una cosa così, qualcosa molto vicino all’hybris, topos politico che coglie chi ancora è convinto che i voti dei partiti si possano sommare come gli ingredienti di un’amatriciana. Che gli elettori siano un capitale che puoi spostare come un giroconto, attraverso un paio di clic. Che il gioco delle elezioni sia solo una questione matematica di insiemi inscalfibili da mischiare a piacimento.

Dopo le elezioni ritorna ciclica l’idea di una grande coalizione

Ecco quindi, con le urne ancora calde, l’idea fulminante: perché non facciamo una coalizione che vada da Che Guevara a Madre Teresa? Perché non facciamo una grande coalizione contro il nemico unico per vedere come funziona? Perché non mettere insieme Fratoianni, Renzi, il Pd, Calenda, Conte e chi ne ha più ne metta? L’idea, bisogna ammetterlo, è perfino simpatica. Ve li vedete Calenda e Fratoianni redigere nello stesso governo un qualsiasi documento di programmazione economica che debba spartire i sussidi tra lavoratori e imprese? Ve li immaginate Conte e Renzi tutti i giorni, a una certa ora, impegnati nella commemorazione delle loro Idi di marzo? Oppure quelli del Pd, che ancora hanno i ancora i lividi, mentre se ne vanno a zonzo per il Transatlantico a Montecitorio e decidono che regalo fare all’emiro per il suo prossimo compleanno? E Calenda che confabula fitto fitto con Paola Taverna per stabilire le strategie economiche?

Dopo ogni elezione, specie se vinta dalla sinistra, si ripropone il tormentone di una mega coalizione che racchiuda tutti
Carlo Calenda (Getty)

Perché forse sarebbe il caso di essere realisti. È vero o no che Calenda ha deciso di fondare (legittimamente) Azione per dissenso verso il Pd e la sua alleanza con il M5S, oltre che per divergenze evidentemente non sanabili altrimenti? E poi: avete mai dato un’occhiata alle dichiarazioni di Renzi sul Pd, sui grillini, sulla sinistra a sinistra del PD? Che fate? Ci dite, guardate, abbiamo scherzato? Non pare anche a voi che una coalizione così larga disinneschi perfino il senso costituente di alcune forze politiche che ci sarebbero all’interno? Altro aspetto è la questione antropologica. Certo sarebbe un esperimento interessante convincere un nugolo di maschi alfa a cooperare. Una missione da Nobel per la pace. Ma non sono gli stessi che avevano fatto della loro muscolare autonomia un segno distintivo?

Troppo spesso ci si dimentica degli elettori, che votano un partito e le sue idee

C’è naturalmente anche la politica, di cui spesso ci si dimentica: gli elettori (nonostante siano sempre meno e siano sempre più bistrattati) votano un partito e le idee che propone. Certo ci sono voti volatili, dati per vendetta magari contro un odiato nemico, ma valgono pochi spicci, durano un alito e si sciolgono come neve al sole (il M5S insegna). Esattamente quale sarebbe la sintesi delle idee? Esattamente quando è successo che il brodo annacquato sia rivenduto come portata immancabile, perché capace di non dispiacere a nessuno? Che fine ha fatto il gusto? Il tuttodentrismo ha tra gli effetti collaterali uno pericolosissimo: fortifica quelli fuori. Giorgia Meloni, che di politica ne capisce più di come la raccontiamo, l’ha compreso perfettamente e ne sta raccogliendo i frutti. E invece i tuttidentristi non riescono a non cadere nella solita tentazione della tiepida normalizzazione. Non sono bastati evidentemente i decenni a capire che il meno peggio porta sempre al peggio e che le rimpatriate funzionano solo per le band rock.

Dopo ogni elezione, specie se vinta dalla sinistra, si ripropone il tormentone di una mega coalizione che racchiuda tutti
Giuseppe Conte (Getty)

Ci sarebbe, infine, un punto fondamentale che sembrano dimenticare in tanti. Tutti gli astenuti, quella montagna di persone che non vanno a votare perché non trovano risposta alle loro esigenze, quelli, non interessano davvero nessuno? Davvero conviene spendere energie per mischiare i pochi che votano piuttosto che temperare le proposte per quelli che non votano? Niente. Ma vuoi mettere il gusto di lanciare, almeno ogni volta ogni elezione, il «da Che Guevara a Madre Teresa»? Peccato, tra l’altro, che non si vedano Guevara e Madre Teresa in giro. Nemmeno quelle.

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