Ebrahim Raisi, giudice ultraconservatore, ha vinto le elezioni presidenziali in Iran. «Mi congratulo con il popolo per la scelta che ha fatto», ha affermato il presidente uscente Hassan Rohani, nonostante lo spoglio sia ancora in corso. E ha aggiunto: «Sappiamo chi è stato eletto oggi dal popolo». Anche gli sfidanti hanno ammesso la sconfitta. Il candidato moderato, l’unico, Abdolnasser Hemmati, ex governatore della Banca centrale iraniana, in una lettera, ha scritto: «Spero che il suo governo, sotto la leadership della Guida Suprema ayatollah Ali Khamenei porterà conforto e prosperità alla nazione». Lo stesso aveva fatto poco prima l’altro candidato conservatore ed ex comandante dei Pasdaran Mohsen Rezai.
Più che un’elezione quella di Raisi è stata una investitura
Raisi, molto vicino all’ayatollah Khamenei, è il capo della magistratura iraniana. Pur di portarlo alla vittoria, il regime ha via via eliminato i candidati più pericolosi. I Guardiani hanno scartato come non idonei non solo i candidati riformisti, ma anche esponenti islamisti legati a Khamanei come Ali Larijani. Un processo che era stato criticato addirittura da Khamenei, che aveva definito le interdizioni ingiuste. Evidente una mossa mediatica. Le critiche sono state infatti interpretate da molti analisti come il tentativo della Guida Suprema – arbitro finale di tutte le questioni di Stato – di apparire super partes.
Raisi dagli Anni 80 in poi, cioè dopo la rivoluzione khomeinista, si è macchiato della sanguinosa repressione dei dissidenti. Il Centro per i diritti umani in Iran (CHRI) lo ha accusato di crimini contro l’umanità per aver ordinato l’esecuzione di 5 mila prigionieri politici nel 1988. È inoltre accusato dell’esecuzione di minorenni e di torture ai detenuti. Non solo. Raisi era stato coinvolto anche nella violenta repressione del Movimento Verde del 2009.