La folla per strada, la repressione durissima delle forze dell’ordine e gli scenari da guerriglia urbana. Le immagini delle proteste in Colombia scorrono da giorni sui social e in tv. Una situazione precaria, aggravata dalla risposta violenta di polizia ed esercito: oltre all’uso di idranti e lacrimogeni, “classici” strumenti per disperdere le manifestazioni, le autorità hanno aperto il fuoco contro i cittadini. E non con proiettili di gomma. Sono almeno 27 i morti contati in una settimana di tensione, almeno 800 i feriti e 89 i dispersi. Centro delle proteste soprattutto Bogotà, la capitale, e Cali, dove si contano più vittime tra i civili.
Il bersaglio delle proteste
L’obiettivo delle proteste ha un nome e un cognome: Ivan Duque, Presidente della Repubblica dal 2018. A far scattare la miccia, la proposta di una riforma fiscale che, secondo alcuni osservatori, avrebbe colpito soprattutto i cittadini del ceto medio e basso. La Colombia, come tanti altri Paesi, viene da un anno terribile, in cui la pandemia ha causato la chiusura di oltre 500mila aziende e in cui si contano 2,8 milioni di nuovi poveri in più. Per intenderci, persone che vivono con uno stipendio da circa 32 euro al mese.

Nonostante il governo abbia ritirato la proposta e il ministro delle Finanze, Alberto Carrasquilla, si sia dimesso, la gente ha continuato a scendere in piazza. Eloquente, in questo senso, un cartello mostrato dai manifestanti nei primi giorni di protesta: “Quando il popolo scende in piazza durante la pandemia, significa che il governo è più pericoloso del virus”. Più chiaro di così. Eppure Duque, che a 42 anni è diventato il più giovane Presidente nella storia del Paese, era stato eletto con oltre 2 milioni di voti in più del suo avversario, Gustavo Petro. Un record, che però non è bastato.
I rapporti con i gruppi armati del Paese
Perché i problemi, per Duque, sono iniziati subito. Poco dopo l’ingresso alla Casa de Nariño il neo Presidente ha affrontato il tema della pacificazione con i gruppi guerriglieri dell’Esercito di Liberazione Nazionale (Eln), i cui dialoghi erano stati aperti dal predecessore, Juan Manuel Santos (Nobel per la Pace nel 2016 per i suoi tentativi di mettere fine al conflitto con le Farc). Farc ed Eln sono formazioni paramilitari di estrema sinistra, che negli anni ’60 hanno iniziato una guerra contro lo Stato costata circa 400mila morti tra guerriglieri, militari regolari e civili. Dopo 30 giorni di valutazioni, il governo ha interrotto i colloqui chiedendo all’Eln di “cessare unilateralmente” le azioni criminali, senza aperture di sorta. In risposta, il 17 gennaio 2019 il gruppo ha fatto esplodere un’autobomba davanti a un’accademia di polizia di Santander, causando 21 morti.
Quello dell’approccio “duro” contro i gruppi armati è stato tra i temi più importanti della campagna elettorale di Duque. Che, non a caso, non solo ha sostituito un Presidente che ha lasciato al Paese l’accordo con le Farc, ma ha anche sconfitto un ex guerrigliero del gruppo M-19 (militarmente inattivo dagli Anni ’90) come Gustavo Petro. Un approccio che, tuttavia, non si è rivelato vincente: il 6 novembre 2019, ad appena un anno dal suo insediamento, Duque ha dovuto accettare le dimissioni del Ministro della Difesa Guillermo Botero, per le esecuzioni extragiudiziali commesse dall’esercito nei confronti dei guerriglieri e per un bombardamento, contro delle postazioni Farc, in cui morirono 8 minori (su quest’ultimo episodio stava indagando anche Mario Paciolla, collaboratore italiano dell’Onu trovato morto nella sua casa in Colombia il 15 luglio 2020).
Gli screzi con Maduro: “Duque è un imbecille”
Un mese prima, Duque aveva accusato il regime di Nicolas Maduro di aiutare le milizie paramilitari, con tanto di dossier presentato all’Assemblea Generale dell’Onu. Peccato che le prove fossero false, un assist che il lìder venezuelano ha colto al volo: “Duque è un imbecille”. Poco dopo, il Presidente ha dovuto affrontare uno sciopero nazionale che ne ha fatto crollare la popolarità.
Della vita del Presidente si sa praticamente tutto, ma gli scheletri nell’armadio (veri o presunti) sono spuntati solo dopo la sua elezione. Figlio di una politologa e di un ex governatore del dipartimento di Antioquia (la regione di Medellin), ha studiato legge in un’università privata della capitale per poi specializzarsi all’American University di Washington e a Georgetown. La sua ascesa professionale e politica è stata rapidissima: avvocato, consulente finanziario, advisor della Banca interamericana di Sviluppo, ha lavorato al fianco dei suoi due predecessori, Alvaro Uribe e Juan Manuel Santos. Da quest’ultimo ha deciso di allontanarsi proprio per il suo approccio “soft” nei confronti dei guerriglieri e per i rapporti “amichevoli” con Chavez. Si è unito, allora, al partito Centro Democratico di Uribe, con cui è stato eletto senatore nel 2014 prima di vincere le presidenziali.
La corruzione, i narcotrafficanti e i voti dei clan
E qui sono spuntate le grane. Prima è stato accusato di aver legami con la multinazionale Odebrecht, colosso brasiliano artefice del più grande scandalo di corruzione in Sud America (per 30 anni, l’azienda ha pagato tangenti per 800 milioni di dollari a presidenti e funzionari governativi di 12 Paesi, tra cui anche gli Stati Uniti, per avere vantaggi negli appalti pubblici), poi di aver “comprato”, con l’aiuto di clan caraibici, dei voti durante le elezioni 2018. A lui, e ai membri del suo partito, è stata anche imputata la vicinanza all’imprenditore-narcotrafficante José Hernandez Aponte, detto Nené, assassinato in Brasile in circostanze poco chiare. In una telefonata con un’esponente importante del Centro Democratico, registrata prima delle elezioni 2018, Nené parla apertamente di fondi da dirottare nella campagna elettorale. La telefonata ha portato alle dimissioni della funzionaria, Maria Claudia Daza, ma sia Duque che Uribe si sono dichiarati estranei. Giusto per chiudere il cerchio, Nené era in affari con gli stessi clan accusati di aver comprato i voti per Duque. L’intera vicenda, che ha tirato in ballo altri politici, è stata chiamata “Nenepolitica”.
Già una settimana prima dell’inizio delle proteste, un sondaggio aveva evidenziato come la popolarità del Presidente fosse molto bassa, intorno al 32%, e che nella fascia di età 18-35 fosse addirittura al 24%. A un anno dalle presidenziali, l’85% dei colombiani intervistati non sa chi votare, ed è probabile che la dura repressione di questi giorni possa incidere in maniera pesante sulle urne. La carriera di Duque, così rapida nella sua ascesa, potrebbe già essere alla fine.