Colao, Cingolani e Franco: i flop dei tecnici scelti dal governo Draghi

Redazione
21/03/2022

Dovevano essere gli esperti chiamati a traghettare il Paese verso la ripresa economica. In realtà la gestione dei dossier sulle imprese strategiche italiane si è rivelata disastrosa. Da Franco a Cingolani, i flop del "dream team" di Palazzo Chigi.

Colao, Cingolani e Franco: i flop dei tecnici scelti dal governo Draghi

Da Dagospia

«Mai affidare le sorti di una nazione a un manager in virtù dei successi ottenuti nelle sue aziende». E mai tanto attuale appare il monito del premio Nobel, l’economista Paul Krugman, a ben guardare i ritardi e i disastri che si stanno consumando a Palazzo Chigi sulle vicende che riguardano le nostre imprese pubbliche strategiche. Il dream team dei tecnici, arroganti e spocchiosi con i partiti che li sostengono alle Camere, portato nelle stanze del potere dall’ex banchiere Mario Draghi da mesi continua a tergiversare, con qualche conflitto d’interesse, sui dossier scottanti che riguardano Telecom, Intel, Leonardo (ex Finmeccanica), Saipem, Cassa Depositi e Prestiti, che ormai finanzia le aziende statali come una volta faceva l’Iri con i fondi di dotazione.

La scelta dei tecnici di governo non sta portando a Draghi i risultati sperati: da Saipem Tim, tempi duri per le aziende strategiche del Paese
Vittorio Colao, ministro dell’Innovazione tecnologica (Getty)

I tecnici di Palazzo Chigi sanno perdendo tutte le battaglie con i grandi rivali internazionali

I Tre moschettieri al servizio di sua maestà Draghi, Vittorio Colao (ministro Innovazione), Francesco Giavazzi (consigliere economico) e Daniele Franco (responsabile del Tesoro), stanno perdendo una dopo l’altra le battaglie ingaggiate con i rivali internazionali. Certo, c’è la guerra in Ucraina di ben altro spessore e drammaticità, ma sul fronte interno i casi emblematici e le sconfitte dell’esecutivo si contano e si pesano: da Telecom (crollo in Borsa del 30 per cento), tenuta in scacco da anni dai francesi di Vivendi, alla Saipem (-33 per cento) di Francesco Caio, (altro tecnico) sull’orlo della bancarotta. Per continuare con Intel, uscita ridimensionata nella produzione dei semiconduttori con la vittoria dei tedeschi con tanto di incazzatura del sottosegretario leghista, Giancarlo Giorgetti.

La scelta dei tecnici di governo non sta portando a Draghi i risultati sperati: da Saipem Tim, tempi duri per le aziende strategiche del Paese
Francesco Giavazzi Consigliere economico di Palazzo Chigi (Getty)

Il caso Leonardo e l’inchiesta de La Verità

Un “caso” a parte riguarda Leonardo dopo che l’inchiesta del quotidiano la Verità sulla mediazione tra l’holding di Alessandro Profumo, l’ex premier Massimo D’Alema e oscuri faccendieri sparsi tra il tavoliere della Puglia e la Colombia. Sull’affaire, dove in una telefonata si fa cenno (D’Alema) a una provvigione di 80 milioni per i lobbisti in campo, il silenzio dell’amministratore e del governo Draghi non aiuta a spazzare via la polvere che si è annidata sulla già opaca vicenda.

Perderà la poltrona Profumo? Oppure, come fin qui è successo, i Tre moschettieri di Supermario copriranno con la coperta di ex Bankitalia gli errori dei capataz pubblici com’è finora accaduto sia a Saipem (Caio) ma anche a Tim, presieduta dall’ex direttore generale di via Nazionale, Salvatore Rossi? Quest’ultimo ha assistito, nei panni del Don Abbondio pusillanime, all’ennesimo cambio della guardia (non indolore dopo la “botta” in Borsa) ai vertici dell’ex monopolista pubblico: fuori Luigi Gubitosi, secondo i voleri di Vivendi, e dentro il rampante Pietro Labriola. La ragione? Sbarrare le porte al fondo d’investimento americano KKr che aveva avanzato una proposta di Opa non ostile guardata invece con interesse proprio da Gubitosi. Ma non passa una settimana con i soldi degli azionisti-risparmiatori bruciati sotto gli occhi di Rossi, che Tim – con il placet di Cassa Depositi e Prestiti -, apre alla trattativa con il fondo americano recuperando qualche spicciolo in Borsa (+4,9 per cento). E pennellone Colao, ex numero uno di Vodafone (a proposito di latenti conflitti d’interesse), da ministro dell’Innovazione ha fatto da spettatore assistendo ai voltafaccia in Tim. Mai sporcarsi le mani.

La scelta dei tecnici di governo non sta portando a Draghi i risultati sperati: da Saipem Tim, tempi duri per le aziende strategiche del Paese
Il ministro della Transizione ecologica Cingolani (Getty)

Cingolani dopo l’aumento della benzina: «Rincari dovuti a una colossale truffa nei confronti dei cittadini»

L’ultimo capitolo delle maldestre avventure di Draghi e dei suoi Tre moschettieri riguarda sia pure in parte l’Eni, il maggiore produttore-distributore di petrolio in Italia. Mentre il prezzo della benzina (con aumenti a catena sui generi di consumo e sulle bollette elettriche) taglieggiava le famiglie, con un colpo d’ala il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani (fisico e dirigente d’azienda) annunciava che i rincari erano frutto di una «colossale truffa a spese delle imprese e dei cittadini» da parte dei produttori di carburanti. A fronte di questa mirabolante denuncia (a mezzo stampa non in una sede istituzionale) cosa avrebbe dovuto fare un governo che si rispetti se non riunire un consiglio di gabinetto per mettere fine all’imbroglio. E nel frattempo convocare il presidente dell’Eni, Claudio Descalzi, per fare luce sui presunti raggiri dei petrolieri.

Macché! È in programma a Palazzo Chigi un decreto sull’Ucraina, in cui sarà inserito l’obbligo per le aziende (proposta Giorgetti) di notificare le operazioni con l’estero (Golden share). Della serie non passi lo straniero che non piace a Bruxelles. Sulla denunciata speculazione dei petrolieri sui carburanti si occuperà la Guardia di Finanza e la procura di Roma che ha aperto un’inchiesta. Amen. Ma quello di Draghi è un “governo balneare” finito sul bagnasciuga in tempi di guerra? Ah, saperlo.