La parola d’ordine nella politica estera di Mario Draghi è atlantismo, con tutto quello che comporta. In questa chiave è stata riprogrammata l’azione del ministero degli Esteri e, quindi, di Luigi Di Maio. Basta amoreggiare con i “regimi”, compreso quelli ‘rossi’ che tanto hanno affascinato in un recente passato il M5s. In altre parole, che poi sono le stesse che Draghi ha pronunciato riferendosi a Erdogan durante una conferenza stampa, con i dittatori si parla certo, ma non si flirta. Cina, Iran, Turchia et similia non sono esempi da cui trarre ispirazione. Sono regimi con cui bisogna dialogare causa forza maggiore, ma non lasciandosi sedurre.
Questo ragionamento porta dritto a Israele, l’unica democrazia in Medio Oriente. Durante gli 11 giorni dell’ultimo conflitto israelo-palestinese, in molti hanno provato a tirare per la giacchetta il premier sperando in una dichiarazione di parte o che almeno lasciasse intuire il suo orientamento.
Il maestro di Draghi e l’atteggiamento verso Israele
Draghi, però, sa perfettamente qual è il potenziale a cui l’Europa e l’Italia non possono voltare le spalle, anche e soprattutto in Medio Oriente. Forse, secondo alcune fonti, è anche un po’ merito di Stanley Fischer, suo docente al Massachusetts Institute of Technology, che sarebbe in seguito diventato il governatore della Banca di Israele. Fischer avrebbe esercitato sempre un certo ascendete su Draghi, anche quando il primo era il numero due della Federal Reserve e il secondo il governatore della Bce. Il maestro, raccontano da ambienti vicini al premier, apprezzò le politiche messe in campo dal suo allievo e lo consigliò nei periodi più difficili del suo mandato. Un legame che, negli anni, avrebbe portato l’attuale presidente del Consiglio a ottenere ottime entrature e gradimento nei “salotti” di Tel Aviv. Dunque, le due direttrici su cui, dicono fonti vicine a Palazzo Chigi, ragionerebbe il premier sono economia e sicurezza. Per un “banchiere” abituato a ragionare in termini di perdite e guadagni, le posizioni strumentali e strumentalizzate della politica sono tempo perso.
Israele, start-up nation che piace alla finanza
Israele è considerata la start-up nation per eccellenza, con un numero altissimo di aziende high tech, se rapportate alla popolazione (circa 5 mila su oltre 9 milioni di abitanti), e un round di investimenti straordinario. Ricerca, sviluppo e innovazione sono le attività strategiche dello Stato ebraico che, nonostante investa miliardi di dollari per la difesa militare, riesce a capitalizzare per la crescita economica del Paese. Il reddito medio degli abitanti di Tel Aviv è di circa 2.500 dollari al mese, soprattutto per chi lavora nell’high tech. Le possibilità di investimento per le aziende italiane sono infinite. E la finanza internazionale, come ovvio, è fortemente attratta dall’ambiente di sviluppo e ricerca del Paese.
Nel campo della sicurezza, poi, Israele è strategico sia per la posizione nell’area, sia per quello che riguarda più strettamente la lotta al terrorismo. Il filo arabismo dell’Italia (e dell’Europa) ha sempre cercato di tenere a distanza il “modello Mossad”. I temutissimi servizi segreti israeliani a volte, è vero, procedono in modo pragmatico e non ortodosso alla risoluzione dei problemi. Le difficoltà del nostro Paese nella collaborazione “strategica” su questi temi, tuttavia, non risentono delle modalità operative dei servizi di sicurezza israeliani, bensì derivano dalle diverse posizioni della politica che non trovano un accordo su un approccio rigoroso al problema sicurezza.
Atteggiamento ambiguo di destra e sinistra verso Israele
Sulle formazioni della destra e sinistra parlamentare, gravano, infatti, pregiudizi e interessi di parte. Si è spesso assistito a manifestazioni di solidarietà convocate da entrambe le sponde politiche, in favore o contro Israele e i palestinesi. Di contro, l’Italia non ha disdegnato di raggiungere accordi sottobanco con il sultano Erdogan, con il regime comunista cinese o con l’Iran degli ayatollah (durante la recente visita a Roma, come ha scritto l’Agi, il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif avrebbe ricordato a Di Maio la «potenzialità dei rapporti bilaterali», tradotta in 30 miliardi in contratti) infischiandosene del loro background dal quale non spicca certo il concetto di rispetto per i diritti umani. E soprattutto negli ultimi anni, con l’avvento dei 5 stelle al governo, la posizione atlantista dell’Italia è stata messa a dura prova.
Draghi vuole correggere queste sbavature anche in Europa, dove il ritiro dalla politica di Angela Merkel e la caduta di consensi interni (e esterni) di Emmanuel Macron, consentono l’ascesa di una nuova leadership che riallacci i rapporti con gli Stati Uniti e guardi al Medio Oriente con prospettive diverse. In questo contesto, si inseriscono la Palestina e Hamas, gruppo finanziato, tra gli altri, proprio da Turchia e Iran. Due Paesi che, al netto dei rapporti economici che molte aziende italiane intrattengono, non possono compromettere il posizionamento dell’Italia nel Patto atlantico. Una linea che non piace ad alcuni alleati di governo, ma che sarà la nuova politica estera dell’Italia targata Draghi, «soprattutto se dovesse diventare Presidente della Repubblica», riferiscono spifferi di Palazzo Chigi.