Finiti i mal di testa (e di pancia) che le vicende quirinalizie gli hanno dato, Mario Draghi ha ripreso a concentrarsi sui vari dossier che il suo governo dovrà affrontare nei prossimi mesi. Oltre a cercare di riallacciare i rapporti con alcuni leader di partito che gli hanno precluso il suo vero sogno, ovvero salire sul Colle al posto di Sergio Mattarella, il premier dovrà rilanciare l’azione dell’esecutivo focalizzando le attività sulla messa a terra dei nuovi 45 obiettivi del PNRR. Solo il rispetto del crono programma infatti permetterà all’Italia di incassare altri 24,1 miliardi di euro entro il mese di giugno. Ma oltre a questi cruciali temi, ce ne sono altri di rilevanti che Palazzo Chigi non potrà trascurare.

Il dossier Montepaschi e la sostituzione di Bastianini
Il primo, che appare il più semplice da risolvere, è quello del Monte dei Paschi. Qui Draghi e il suo ministro dell’Economia Daniele Franco, oltre a ottenere il via libera dalla Commissione europea per posticipare di oltre un anno, rispetto a quanto inizialmente indicato, la vendita della più antica banca del mondo, dovranno scegliere a breve il prossimo capo azienda. Ormai il destino del grillino Guido Bastianini, attuale amministratore delegato della banca senese, è segnato. Infatti dal Mef gli è arrivato nei giorni scorsi un perentorio avviso di sfratto. L’obiettivo è quello di continuare nel risanamento della banca (previo un ennesimo aumento di capitale da oltre 2 miliardi) per poi trovare un buon matrimonio da fare. Questo dopo che lo scorso novembre l’amministratore delegato di Unicredit Andrea Orcel, dalla sua magione portoghese di Cascais, aveva rifiutato l’invito del governo ad accollarsi l’istituto.

Il governo vuole che Ita vada alla Msc di Aponte
Il secondo dossier è quello di Ita Airways, la compagnia aerea sorta dalle ceneri della vecchia Alitalia cui è arrivata un’offerta di Msc, il colosso italo-svizzero della logistica marittima di proprietà della famiglia sorrentina Aponte, congiuntamente all’interesse per una partnership commerciale da parte dei tedeschi di Lufthansa. Formalmente lo Stato, proprietario della neo azienda, dovrà indire una gara europea, che gli esperti del settore ritengo di facciata, poiché l’indicazione del governo è di vendere Ita a un gruppo italiano e non ad Airfrance o all’americana Delta. Inoltre, in questa partita, gli Aponte giocano in casa poiché conoscono da molto tempo Alfredo Altavilla, che di Ita è presidente esecutivo; esattamente dai tempi di Fca, quando Altavilla era il numero uno delle attività europee della casa automobilistica e aveva come fornitori per la logistica proprio la Msc di Aponte, con un contratto del valore di un centinaio di milioni di euro l’anno. Il terzo dossier, quello di Saipem, è il più recente e forse più inaspettato. La società di ingegneria ha lanciato l’ultimo giorno di gennaio un allarme sui conti che ha fatto precipitare il titolo in Borsa a 1,30 euro (- 40 per cento nei primi due giorni post annuncio). Di questa crisi si dovranno interessare il Mef assieme ai grandi azionisti di Saipem, ovvero Eni e Cdp. Non c’è infatti solo da ricapitalizzare la società che ha un immediato bisogno di denaro, ma anche vedere come cambiare l’attuale management che ha dimostrato di avere una bassa capacità di previsione dei conti. Francesco Caio, attuale amministratore delegato nominato lo scorso maggio dall’attuale governo (era presidente dal 2018), l’estate scorsa aveva presentato agli analisti una situazione dei risultati non allarmante. Anzi, Saipem aveva fornito una previsione che stimava ricavi tra 4,5 e 5 miliardi, il ritorno a un ebitda adjusted positivo, investimenti tecnici tra 200 e 300 milioni e indebitamento finanziario netto a fine 2021 intorno a 1,6 miliardi. Numeri che sono stato quasi totalmente disattesi.

Saipem e il rimpallo di responsabilità con le passate gestioni
Oltre alle certezze di oggi (i soci debbono fare aumento di capitale che per entità i tecnici chiamano “jumbo”), in queste ore lo sport in voga a Roma è dare la colpa a quelli che c’erano prima. Per Cdp ora guidata da Dario Scannapieco l’indice viene puntato contro Maurizio Tamagnini e Claudio Costamagna (allora responsabili dell’acquisto di Saipem da Eni quando erano rispettivamente amministratore delegato del Fondo Strategico Italiano, cioè l’attuale Cdp Equity, e presidente di Cdp). Per parte sua il ministero di Via XX Settembre fa sapere che loro sono al governo dal febbraio del 2021, quando erano già state poste le basi degli attuali guai di Saipem. L’unica a conoscere bene tutte le tappe della via crucis è l’Eni, la quale sa bene che si tratta di una crisi iniziata da 8-9 anni e che ha indotto il colosso energetico (con l’avvallo dell’allora governo) a passare nel 2015 parte delle azioni di Saipem alla Cdp (oggi al 12,5 per cento, mentre Eni possiede il 30,54 per cento), dopo un aumento di capitale monstre complessivo di 3,5 miliardi di euro. Alcuni osservatori si chiedono che cosa diranno della situazione attuale gli azionisti istituzionali e internazionali di Saipem e le Fondazioni bancarie, oggi azioniste di Cdp al 15 per cento, del nuovo aumento di capitale di almeno 1,5 miliardi che sarà richiesto dalla società per evitare il fallimento, e del fatto che nessuno tra Saipem, Eni e Cdp si fosse accorto del bubbone che stava scoppiando.

Su Enel le tensioni tra l’ad Starace e il governo
L’ultima grana da affrontare è quella che ha per protagonisti l’Enel, e il suo amministratore delegato Francesco Starace. La sua convivenza difficile con i governi che si sono succeduti in questi anni è cosa nota. In passato l’ad del colosso elettrico aveva già manifestato comportamenti eretici rispetto ai desiderata dell’esecutivo (ad esempio nella vendita del 10 per cento di Open Fiber a Cdp). Ma ora i rapporti sono di nuovo molto tesi tanto che Mef e Palazzo Chigi non escludono di arrivare a un chiarimento. L’ultimo strappo, che proprio non è andata giù a Draghi e ai suoi più stretti consiglieri, è la partecipazione di Starace, assieme a tanti altri capi azienda italiani, all’incontro online con Vladimir Putin, in piena crisi tra la Russia e l’Occidente per l’Ucraina. Palazzo Chigi ha cercato di far saltare l’incontro senza riuscirci, e ha costretto l’Eni a non partecipare. Lo stesso Draghi dopo sette giorni dalla conferenza ha dovuto organizzare una telefonata con Putin per parlare sia del tema Ucraina sia degli approvvigionamenti del gas russo verso l’Italia. A metà gennaio, Starace aveva poi rilasciato un’intervista al Corriere della sera in cui affermava che l’Enel non stava facendo extra-profitti derivanti dalla vendita di gas e energia elettrica a famiglie e aziende, conseguenti ai recenti aumenti della materia prima. Esattamente il contrario di quanto detto qualche giorno prima dal governo che stava studiando una manovra fiscale per passare gli extra-profitti dalle aziende a imprese e famiglie più svantaggiate dagli aumenti.

Lo scontro con Cingolani sulla transizione ecologica
Il terzo scontro risale ai primi di dicembre ed è avvenuto tra Starace e Roberto Cingolani, il ministro per la Transizione Ecologica. Sempre in un’intervista l’ad dell’Enel ha dettato la sua agenda per la transizione ecologica, non proprio allineata con quanto desiderava il ministro: stop ai futuri progetti sul nucleare, veloce diminuzione della dipendenza dell’Italia dal gas, gli stabilimenti delle aziende debbono funzionare ad energia elettrica, e l’energia deve essere prodotta da fonti rinnovabili con cui si possono riempire i tetti dei capannoni e delle case. Starace, si sa, è un manager duro dai modi che a molti non piacciono. Ha però dalla sua parte gli analisti finanziari che hanno sotto gli occhi i rimarchevoli risultati da lui raggiunti in questi anni. E se dunque è impensabile sostituirlo prima della naturale scadenza del suo mandato (maggio 2023), ricondurlo alla ragion di Stato ancora di più, visto il carattere dell’uomo. E considerando anche che il Mef, pur essendo azionista al 23,6 per cento, non ha alcun rappresentante eletto nel consiglio di amministrazione della società.