Fino a un certo punto della sua carriera Novak Djokovic è stato tra i tennisti più amati al mondo. Simpatico, sempre sorridente, vincente ma senza quell’aria di intoccabilità che hanno due leggende come Federer e Nadal. In Italia lo abbiamo visto scherzare in tv con Fiorello e imitare alla perfezione i suoi colleghi. Poi, però, qualcosa dev’essersi rotto. Negli ultimi anni, se a livello sportivo ha sbagliato pochissimo, cannibalizzando il circuito come (forse) neanche Federer e Nadal prima di lui (è da tempo stabilmente il numero 1 al mondo e ha vinto 20 Slam come gli altri due, a -1 dal record assoluto) a livello comunicativo non ne ha azzeccata una. Arrogante, nervoso, insopportabile, alla costante ricerca dell’affetto del pubblico in modo quasi patetico. I tifosi amano quegli altri due più del serbo, e Djokovic ha iniziato a soffrirne perché non se ne capacita: forse era comprensibile quando non vinceva come loro, ma adesso? A questa frustrazione ha poi aggiunto un intero repertorio di scelte discutibili e controverse. Il complottismo sul Covid, di cui si è tornato a parlare in queste ore per la sua probabile assenza agli Australian Open di gennaio. La creazione di un sindacato di giocatori parallelo all’Atp, che ha avuto scarso successo. I legami con la destra ultranazionalista serba, quella responsabile del genocidio di Srebrenica e delle violenze della guerra jugoslava. In tutto questo, il fatto che gli manchi un solo torneo del Grande Slam per scrivere la storia sembra un dettaglio quasi irrilevante.
Djokovic, no-vax e complottista sul Covid
«Non so se ci sarò in Australia», ha detto un paio di giorni fa. «La situazione non è buona e non so quanti viaggeranno a Melbourne questa volta». Nel 2021, per poter partecipare agli Australian Open (che Djokovic ha vinto otto volte, un record) il protocollo prevedeva una lunga quarantena prima del torneo e la creazione di “bolle” individuali nel suo svolgimento. Avesse mostrato insofferenza solamente per le procedure stringenti, poco da obiettare. Poi però Djokovic ha aggiunto: «Trovo terrificante che la società ti giudichi in base a un vaccino. Non voglio partecipare a una guerra che stanno fomentando i media, quindi non rivelerò se sono vaccinato o meno». Con le conferme ufficiali da parte del governo di Canberra che non sarà consentito l’ingresso in Australia agli atleti non vaccinati, la sua presenza sembra quantomeno a rischio.

E lo scetticismo nei confronti dei vaccini è un qualcosa che Djokovic si porta dietro da tempo. Ad aprile 2020, con il mondo ancora alle prese con le incertezze di una pandemia che aveva da poco chiuso tutti in casa, il serbo scrisse una lunga lettera al New York Times. «Personalmente, sono contrario alla vaccinazione contro il Covid-19 per poter viaggiare, ma se diventerà obbligatorio dovrò prendere una decisione». Erano tempi, quelli, in cui il vaccino sembrava ancora lontanissimo e in cui il tennis, sospeso come tutti gli altri sport, si stava interrogando sul suo futuro. «Non sono un esperto, ma voglio avere la possibilità di scegliere cosa penso sia meglio per il mio corpo. Vorrei tenere la mente aperta e continuerò a fare ricerche» a riguardo. «Ci tengo al mio benessere e passerò la mia vita a conoscere il mio corpo e consentire al metabolismo di essere la migliore forma di difesa contro “impostori” come il virus Covid-19», conclude la lettera. Pochi giorni prima, la moglie Jelena aveva condiviso sui suoi profili Instagram un video complottista sui legami tra Covid e 5G, poi rimosso.
Ma non solo: a giugno 2020, per aiutare i suoi colleghi danneggiati economicamente dallo stop ai tornei, organizzò un torneo tra Serbia e Croazia (l’Adria Tour), naturalmente privo di distanziamento, mascherine e tutte le normali precauzioni con cui il mondo vive da quasi due anni. L’evento così si trasformò in un focolaio a causa del quale lo stesso Djokovic, la moglie e altri atleti e membri degli staff risultarono positivi, e alla fine fu annullato prima del tempo. «In Serbia, Corona (riferito al virus) è solo una bevanda», disse a L’Equipe un coach serbo, giusto per far capire con che spirito era stato organizzato il tutto. «Ci sono stati degli errori», ha ammesso, «ma se avessi la possibilità rifarei il torneo». Djokovic è tra l’altro un grande seguace della medicina alternativa, e nel corso della sua carriera è stato aiutato dai santoni Pepe Imaz e Chervin Jafarieh.
Djokovic e il sindacato della discordia
Ad agosto 2020, poi, Djokovic ha provato una “scissione” della Atp, l’organizzazione del tennis professionistico maschile. Fondata nel 1972, nell’Atp sono coinvolti sia i giocatori che i tornei, e rappresentanti dei due “mondi” prendono le decisioni congiuntamente. A un certo punto, Djokovic ha deciso che questa organizzazione non gli andasse più bene, e insieme al canadese Vasek Pospisil ha lasciato l’Atp per fondare la Professional Tennis Players Association (Ptfa), «la prima associazione solo di giocatori di tennis dal 1972», come ha annunciato entusiasta il serbo in un post su Instagram del 20 agosto 2020, durante gli Us Open. L’obiettivo del “sindacato”, che non ha mai voluto creare un circuito parallelo a quello esistente, era di restituire più potere ai giocatori, limitati nelle decisioni dalla struttura dell’Atp. Una presa di posizione che ha avuto un discreto successo anche tra ex tennisti («Doveva succedere dieci anni fa», ha detto l’ex numero 1 al mondo Andy Roddick»), e alla quale hanno aderito anche alcuni atleti di punta come Hurkacz e Carreno Busta.
Inevitabilmente, però, la fondazione della Ptfa non è stata accolta benissimo dalla Atp, che ha ricevuto solidarietà da parte dei quattro tornei del Grande Slam, di tutti gli altri tornei del circuito, della stragrande maggioranza dei tennisti e anche della Wta, l’associazione femminile omologa. Come a voler scavare un solco ancora più profondo tra i tre, Rafael Nadal e Roger Federer si sono rifiutati di unirsi al Pfta, sottolineando la necessità di «unità» nel mondo del tennis. Le cose, comunque, da un anno a questa parte non sono cambiate particolarmente, e gli obiettivi del sindacato di Djokovic sembrano ancora poco chiari.
Djokovic e i nazionalisti serbi
Come se non bastasse, a far discutere di Novak Djokovic sono anche le amicizie. A fine settembre sui social ha iniziato a girare una foto in cui il tennista è al ristorante con Milan Jolovic. Non uno qualunque, ma il comandante del gruppo paramilitare Lupi della Drina, alleato dell’esercito serbo in occasione del genocidio di Srebrenica del 1995. Braccio destro di Ratko Mladic, il responsabile proprio di quel massacro e per questo condannato all’ergastolo, Jolovic commentò la sentenza parlando di «ennesima satanizzazione del popolo serbo». Djokovic non ha voluto rilasciare commenti su quella foto.

La foto, però non è un episodio isolato. In occasione della vittoria della Atp Cup del 2020, Nole aveva festeggiato il successo intonando canzoni militari nazionaliste insieme ai suoi compagni di squadra serbi. A luglio di quell’anno aveva poi accettato da Milorad Dodik, politico negazionista del genocidio di Srebrenica, l’onorificenza all’Ordine della Republika Srpska, la regione serba della Bosnia. Prima di lui avevano ricevuto quell’onore Slobodan Milosevic, Radovan Karadzic e proprio Ratko Mladic, tre criminali di guerra. E ancora, Djokovic ha sponsorizzato un liquore che portava il nome di Draza Mihailovic, generale jugoslavo e collaborazionista dei nazisti nel corso della Seconda guerra mondiale. Nato e cresciuto al confine col Kosovo, Nole ritiene quella regione il cuore pulsante della Serbia e non lo ha mai nascosto.