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Di Maio che non cita il M5s e altre storture della comunicazione politica

Di Maio parla di «partito di Conte», ma mai di «cinque stelle». Come quando diceva «Bibbiano» invece di Pd (salvo poi farci un’alleanza). O tipo Veltroni che nel 2008 non nominava Berlusconi (e quello stravinse le elezioni). Quando il “silenziatore” non funziona. E disorienta l’elettore.

20 Luglio 2022 09:01 Paolo Landi
Di Maio che non cita il M5s e altre storture della comunicazione politica

Esiste una comunicazione politica politicamente corretta? Ora che gli ideologhi woke/awake, le post-femministe del #metoo, i radicali del #safetyfirst reclamano un’attenzione al linguaggio che non si era mai vista, come se le ingiustizie del mondo dipendessero da come ci si esprime e una schwa sembra sufficiente a cancellare conflitti no-gender e razzismo, nessuno si domanda se il fair play in politica abbia ancora un senso. Difficile chiederselo dopo quel vaffanculo grillino che risuonò nelle piazze italiane, autorizzando tutti a mandarsi reciprocamente a quel paese: sdoganato quello – e con il senso di liberazione che accompagna sempre le parole che non si possono dire ma che tutti abbiamo sulla punta della lingua – la festa è proseguita spostando perfino i luoghi della politica: dalle sedi istituzionali alle ville in Sardegna, agli stabilimenti balneari di Milano Marittima, alla spiaggia di Bibbona, mentre, al di là dell’Oceano, da Maralago, confermavano che era tutto giusto, anche gli americani facevano così. Pare quindi pleonastico porsi domande su come dovrebbero o non dovrebbero parlare i nostri ministri, i nostri parlamentari per ridare dignità alla politica, dopo tutti i tentativi messi in campo per togliergliela.

Meloni e il tic del «sommessamente», quando non urla con gli occhi fuori dalle orbite

C’è un avverbio, per esempio, che dà il polso della situazione, in questo galateo di ritorno che vorrebbe esorcizzare il gesto del braccio o quello del dito medio alzato per tornare a un dialogo da cristiani. Lo dice Giorgia Meloni, che deve farsi perdonare quell’accento, per entrare nel dibattito come si deve. E, a volte, è capitato a Maria Elena Boschi di ripeterlo (ma, se se ne accorge, siamo sicuri che non lo userà mai più): «sommessamente». Quando non è in Spagna a urlare con la voce roca e gli occhi fuori dalle orbite ai comizi di Vox, la comunicazione politica della Meloni è tutta un sussurro: «Vorrei sommessamente far notare…», «Tengo a precisare sommessamente che…», tanto che Lilli Gruber deve a volte tendere l’orecchio, per cogliere le cazzate fragorose dette da Giorgia, però con un filo di voce, e con le mani in grembo.

La genialata di Veltroni: lo sforzo sovrumano di non citare Berlusconi 

Dal sommesso al sommerso è un attimo: il primo fu Walter Veltroni che si costrinse a un esercizio sovrumano: non nominare mai Silvio Berlusconi durante la campagna elettorale del 2008. Una genialata che (forse) rimpiange ancora oggi. Annegato nelle perifrasi, inabissato negli omissis, trasformato in un pronome, occultato per sempre nei discorsi veltroniani che finivano per non avere né capo né coda, Berlusconi se la godeva con quelle chiacchierone delle sue tre televisioni e quelle altre di riporto, dove Veltroni era al contrario sempre sulla bocca di tutti.

Il vizietto di Di Maio: dal «Partito di Bibbiano» al «partito di Conte»

Ora è il turno di Luigi Di Maio: dopo la parentesi incresciosa del «Partito di Bibbiano», il significato traslato della figura retorica che alludeva al Pd, il nostro ministro degli Esteri è andato a scuola e ha perfezionato il tropo: «il partito dell’opposizione», «il partito di Conte», «la componente responsabile», senza mai nominare i cinque stelle, che nel suo universo attuale sembrano non avere mai brillato, mai esistiti. Così, il cittadino per il quale tutti, ma soprattutto Di Maio, dicevano di aver rispetto si ritrova nell’incubo del silenziatore veltroniano e giustamente non capisce una mazza, passa anche di qui la disaffezione alla politica.

Giorgia, la gente non ne può più di far finta di credere alle tue sparate

Meglio Draghi allora che sta zitto impartendo la vera lezione di bon ton che la Meloni dovrebbe scrivere cento volte sul tablet: conta fino a sette prima di aprir bocca. Enzo Bianchi, su Twitter, non gliela manda a dire: «Ogni parola, prima di essere pronunciata dovrebbe essere preceduta da una domanda interiore: è una parola necessaria? è una parola che dice la verità? è una parola buona, mite, rispettosa (ancorché sommessa, ndr)?». Se Giorgia risponde sì a tutte le domande è autorizzata a parlare. La comunicazione politica deve insomma tornare ai fondamentali, la gente non ne può più di far finta di credere che l’immigrazione si ferma chiudendo i porti, che basta essere una donna, una madre, una cristiana, insomma una Giorgia qualsiasi, per governare la settima potenza mondiale al posto di Draghi.

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