I Devo e una storia di devolution che dopo 50 anni è ancora attuale
Un documentario su RaiPlay racconta la storia del gruppo rock dei Devo, che negli Anni 70 parlavano già di regressione e alienazione, in anticipo sui tempi, visto che oggi appaiono doverose davanti a pandemie, guerre e crisi ambientali. Cosa direbbe adesso il politicamente corretto dei loro brani?
Su RaiPlay è disponibile Devolution, una teoria Devo, un documentario che ci racconta come quasi cinquant’anni fa qualcuno ha predetto tutto quello che ci si sta parando di fronte. Quel qualcuno sono i Devo, una band che un tempo, ai miei tempi, avrebbero presumibilmente definito seminale. In realtà chi lo avrebbe fatto, ho in mente nomi precisi della critica musicale rock, alternativa, quelli appunto che usavano questo aggettivo, avrebbero preso una bella cantonata, visto quanto poco i Devo siano stati apripista di un qualche genere o anche solo ispiratori di altre band capaci di portare avanti altrettanto potentemente tesi a tema. Il titolo Devolution, una teoria Devo è assai fuorviante. Lo è perché da noi, oggi, devolution ha un significato assolutamente diverso da quello che ha ispirato Gerald Casale e soci. Se infatti oggi per devolution si intende la delocalizzazione da parte dello stato rispetto alle autonomie territoriali, per quel che riguarda l’amministrazione e la legislazione, se ne sente parlare spesso, specie da che la globalizzazione ha portato molte aziende a trasferire le proprie attività all’estero, impoverendo le nostre provincie, negli Anni 70 per devolution si intendeva la de-evoluzione, cioè un inversione di rotta per quel che concerne progresso e evoluzione, in sostanza una regressione vera e propria. La band, si apprende dal documentario, è nata sulla scia degli scontri universitari, tra studenti e forze dell’ordine, avvenuti a Kent State, in Ohio, a cavallo tra Anni 60 e 70, per la precisione il 4 maggio 1970, scontri che sono stati immortalati da Crosby, Stills, Nash e Young nel brano Ohio, appunto. Lì, nel campus che vide l’esercito aprire il fuoco sui ragazzi, i fratelli Gerald e Bob Casale, rispettivamente basso e voce, il primo, tastiere il secondo, in compagnia di Mark Mothersbaugh e Bob Lewis alle chitarre, coadiuvati dai due fratelli di Mark, Jim alla batteria e Bob alle chitarre, danno vita a una band unica nel suo genere, a partire dal look eccentrico: erano soliti esibirsi indossando tute gialle di plastica, non troppo diverse da quelle dei medici sotto Covid, con in testa dei curiosi copricapi cilindrici, come dei segnali stradali.

Un rock a metà strada tra post-punk e new wave racconta il degrado della società
Una band che ha raccontato attraverso un rock a metà strada tra post-punk e new wave il degrado della società contemporanea, contemporanea allora, siamo al volgere del Novecento, ma per certi versi profetica verso l’oggi, visto che temi quali l’emergenza climatica sono diventati tristemente attuali. Una sorta di versione umanizzata dell’alienazione robotica dei Krafterk, almeno a livello estetico, con una visione del mondo apocalittica, certo trattata con sarcasmo e ironia, che letta oggi suona come le grida di Cassandra, giusto un filo più ascoltate. Già dall’album d’esordio, quel Q: Are We Not Men? We Are Devo!, prodotto dal genio Brian Eno, la band dei fratelli Casale si è imposta come voce letteralmente e letterariamente fuori dal coro, sorte condivisa con altri geni del rock, considerati eccentrici laddove erano semplicemente in anticipo sui tempi. Oggi parlare di de-evoluzione, anche solo guardando a quel che è successo negli ultimi due, tre anni, appare non solo plausibile, ma quasi doveroso. Pandemie dovute si presume all’incuria dell’uomo nel trattare il Pianeta, guerre, crisi climatiche che stanno uccidendo la Terra, crisi economiche che sanciscono, ce ne fosse bisogno, quanto il Capitalismo, al pari del Comunismo Marxista, sia una teoria fallimentare, molti aspetti per altro citati direttamente dai Devo nelle loro canzoni e da Gerald Casale nel documentario in questione.
Oggi quelle canzoni dovrebbero fare i conti col politicamente corretto
Ora, fatta salva l’idea che oggi i Devo avrebbero decisamente più difficoltà a trovare spazio nell’asfittico panorama musicale (perché è vero che con la Rete c’è molta più offerta e quindi possibilità di esserci, ma è anche vero che l’esposizione necessaria per esserci realmente è in mano davvero a quattro gatti, detentori del futuro di una intera generazione di artisti, in qualche modo boia delle generazioni precedenti), pensate oggi a una canzone come Mongoloid o una come Beautiful World che vita avrebbero, a fare i conti col politicamente corretto, l’ascolto distratto su Spotify a vanificare ogni richiesta legittima di attenzione, quel che la visione del documentario sui Devo o anche solo l’ascolto che da quel documentario giocoforza deriva, la loro discografia almeno fino a metà degli Anni 80, mi lascia pensare che forse siamo arrivati al momento in cui un’altra canzone della band dell’Illinois, tratta dall’album Smooth Noodle Maps, del 1990, album che sancirà uno scioglimento della band che durerà un quinquennio, canzone che in qualche modo prova a trattare alla maniera dei Devo il passaggio tra post-modernismo e ipermodernismo, dove nel primo la musica dei Devo può serenamente essere iscritto, il secondo vede un totale abbandono delle istanze ironiche, un vero e proprio divieto, non perché nel mentre le certezze e i valori sul cui fallimento il post-moderno aveva costruito un immaginario fossero stati riparati, tutt’altro, quanto piuttosto perché di colpo sembra che la parola d’ordine sia diventata realismo.

Triplo salto mortale tra postmodernismo e ipermodernismo
Sì, l’ipermodernismo, erede parricida del post-modernismo, stabilisce che la commistione tra alto e basso tipica di quest’ultimo, la verità posta costantemente in crisi da un manierismo a volte fine a se stesso, dall’autoreferenzialità portata agli estremi, da un disincanto che trova sfogo più bel paradosso che nella malinconia, con buona pace di quanto di buono l’ultimo lacerto del Novecento ci ha regalato, in musica come in letteratura e nell’arte, indicando in un moralismo strettamente legato al reale, un reale spezzettato narrativamente dall’ingresso in scena della Rete e dei social, certo, la globalizzazione prevista dagli stessi Devo a dettare l’agenda. Certo, non che l’ipermodernismo sia una pacificazione con la modernità che il postmodernismo negava, se possibile il grado di paranoia presente oggi è anche più alto di quello messo in scena allora, come dire: si fanno i conti con quella realtà che i postmoderni evitavano, ma è un fare i conti con una realtà filtrata e anche depotenziata dai media, quindi a grande rischio di credibilità. Poi, in una sorta di triplo salto mortale che in qualche modo dimostra la stretta parentela tra postmodernismo e ipermodernismo, può anche capitare che il fare i conti con il reale passi attraverso la sua negazione dichiarata, la scelta razionale di nascondere il reale nella finzione, volendo anche nella sua stessa negazione, una pacificazione, questa sì, con il realismo ottocentesco che nella seconda metà del Novecento era stata smantellata a botte di metatestualità, ma i tripli salti mortali sono tipici dei saltimbanchi, anche se solo di quelli particolarmente talentuosi.

Lo scenario predetto appare desolante, agghiacciante, devastante
Tante parole, le mie, che nascondono forse il disagio di chi ha preso coscienza, o consapevolezza di aver preso coscienza – so che sembra un loop ma così non è – di quanto all’alienazione cantata ironicamente dai Devo, alienazione come parte di un degrado che già nei primi Anni 70 appariva destinato a un triste epilogo, sia nel mentre subentrato uno stato di smarrimento, un sassolino è entrato negli ingranaggi e la macchina è destinata a breve a fermarsi per sempre. De-evoluzione, appunto, degenerazione progressiva come in certe malattie che siamo usi chiamare con sigle, nella speranza di renderle meno spaventose. Del resto, siamo soliti dire che ritrovarci a vivere qualcosa anticipato a suo tempo ha un che di rassicurante, ma mai come in questo caso lo scenario predetto e poi verificatosi appare desolante, agghiacciante, devastante. Un tempo qui era tutta campagna, avrebbero detto i nostri nonni, avessero mai guardato al progresso come a qualcosa destinato a finire impietosamente; io dico, infilatomi un cono spartitraffico in testa, meglio farsi seppellire da una risata ironica che da uno tsunami, it’s a beautiful world.