Il decreto contro i rave e la morte di Vallora: il racconto della settimana

Sono con DFA a Montemarcello per festeggiare il suo compleanno. A cena si parla del decreto contro i rave, del film Triangle of Sadness e anche della morte di Vallora. In quel momento ho ripensato a Rupert e a quanto mi mancano i suoi discorsi. Il racconto della settimana.

Il decreto contro i rave e la morte di Vallora: il racconto della settimana

La sera. Non ho una grande confidenza con i bambini. Non ce l’ho mai avuta. A volte la cosa mi viene addirittura rimproverata da amici che, nel tempo, mi hanno più volte richiamato e che, in qualche occasione, si sono addirittura offesi per la poca empatia dimostrata nei riguardi dei loro figli. «Mia figlia manco la conosci», hanno detto alcuni di loro, con aria sinceramente dispiaciuta. Che dire? Hanno ragione. Non mi piacciono i bambini, non me ne frega un cazzo, è sempre stato così e sempre così sarà, e forse è questo il motivo principale per cui non ho mai sentito il bisogno di fare figli. È brutto da dire ma è la verità regaZ, e non ci posso fare niente. L’unica eccezione a questa regola sono i figli di DFA. Ho perso la testa quando è nata Nausicaa, che ormai ha quasi 16 anni e a cui voglio un bene immenso anche se ahimè vive a BCN e non la vedo mai, e mi sono realmente emozionato la prima volta che ho preso in braccio Sebastian, poco dopo che è nato, più o meno tre anni fa. E principalmente è questo il motivo per il quale oggi sono saltato su un treno diretto verso La Spezia, con appresso una sacca blu con dentro una t-shirt, una felpa e un pigiama, per partecipare alla sua festa di compleanno, che si terrà domani a Portovenere, in riva al mare, con tutta la famiglia e un po’ di gente che arriverà da tutta Italia. «Benevenuto a La Spezia fradèl. Ti piace? A mio avviso è una delle più brutte città d’Italia. Sembra Brindisi». Mi ha accolto così DFA alla stazione, prima di farmi salire in macchina e imboccare l’autostrada.

Dato che la maggior parte degli invitati arriverà domani mattina ora sono con DFA in un ristorante a Sarzana, un po’ deluso perché sua figlia non c’è dato che ha preferito restare a BCN per festeggiare Halloween con le amiche, ordiniamo due zuppe di pesce, ci dividiamo una bottiglia di Vitovska di Skerk (che tra l’altro è il vino preferito di Ofelia), dibattiamo del più e del meno.
«Siamo dal “pentito” fradèl», dice lui.
«In che senso?» chiedo io.
«Nel senso che il proprietario del ristorante è noto qui in zona come “il pentito”, perché pare che in seguito ad una crisi di coscienza si sia ravveduto e abbia infamato».
«Ma pentito di cosa? Mafia? Camorra?».
«No, niente del genere, il tipo era un militante di Lotta Continua. L’autista del commando che ha ucciso Calabresi. Dopo che si è pentito lo hanno mandato qui. Questa zona è famosa perché all’epoca mandavano qui tutti quelli sotto protezione».
«Un po’ come nei Soliti sospetti. Mai mettere cinque criminali nella stessa stanza».
«Esatto. Potresti scriverci un Tales, un po’ come ha fatto quel tizio che ha fatto il miglior podcast italiano, ambientato da queste parti La Piena. Lo hai sentito?».
«No. Non l’ho sentito ma me ne avevi parlato. So che lo ha fatto Matteo Caccia che è uno in gamba. Lo ascolterò. Senti, come si chiama “il pentito”? Se era di Lotta Continua Fiore lo conosce di sicuro. Che cazzo, è quello che ha infamato Sofri e gli altri?».
«Non so, devo chiedere a mia moglie».
«E poi Sofri è pure amico di tuo padre».
«Ah sì? Non lo sapevo. Vabbè fradèl, a parte Sofri, secondo me, scusa se mi permetto, ma devi prendere in seria considerazione l’idea di metterti a fare dei podcast. So che ti fa soffrire ma la radio è morta, e tu non ci puoi fare niente».
«Me lo diceva un ragazzo che viene al bar giusto l’altra sera: “Ormai la radio è divisa tra ascoltatori tamarri che vengono da Baranzate di Bollate e i camorristi che gestiscono le frequenze in FM. Gli unici rimasti a crederci sono Linus e Nicola Savino”. Un po’ forte come dichiarazione, ma ammetto che ha un senso».
«Ha un senso perché ormai non l’ascolta più nessuno. Come nessuno legge i giornali di carta dove scrivi. Il futuro è il podcast. Non capisco, cosa aspetti?».
«Mah, io più che altro voglio mettere della musica, suonare dei dischi. Vuoi mettere la libidine di preparare una scaletta che spazia dal punk dei Clash al jazz di Coltrane? Dei dischi funk mischiati con il Nu jazz o con l’elettronica. Il massimo. Poi fare la radio è il lavoro più bello del mondo, come invitare qualcuno a casa tua, offrigli qualcosa da bere e fargli ascoltare un po’ di musica. Poi, cazzo, grazie alla radio sono entrato in contatto con persone pazzesche. Ti faccio qualche esempio. Mi prendi in giro per Jovanotti, ma io alla fine Jovanotti l’ho conosciuto, me l’ha presentato dj Ralf, ci ho parlato, abbiamo messo su i Beastie Boys, chiacchierato di Rick Rubin, parlato di bici. Quando mai avrei avuto un’occasione così. Ma ti posso fare mille altri esempi. Prendi Enrico Brizzi, il mio scrittore preferito di quando ero ragazzo. Anche lui l’ho beccato attraverso la radio e poi sono addirittura stato invitato a presentare uno dei suoi ultimi romanzi. Ralf stesso aveva una rubrica in un mio programma, siamo diventati amici. E poi ancora, il sindaco, che cazzo, un paio di premi Strega, altri cantanti, giornalisti, intellettuali. Praticamente con la radio puoi arrivare a tutti, altro che podcast. È un altro sport».
«Quindi adesso, cosa pensi di fare?».
«Ho un paio di cose in ballo: una è una roba che fa un po’ fine carriera, tipo Elvis a Las Vegas o tipo i calciatori che vanno a giocare in Cina. Non di grande prestigio, diciamo. Però ci possono essere parecchi soldi sul piatto. L’altra è una soluzione ultra figa, uber cool, per l’esattezza. Vediamo dove portano. Non ho ancora avuto il tempo di approfondire, ma sarà il mio compito nel prossimo mese. Sento il bisogno di fare una cosa che sia solo mia. Chissà che non ci riesca». «Devi fare come Kobe Briant, devi avere la “mamba mentality”, come lui che si allenava, invece di due come i suoi compagni, quattro volte al giorno. Solo così puoi fare veramente la differenza caro fradèl, è solo questione di buona volontà».
«La cosa che mi spiace e che dopo anni che faccio questo lavoro, dopo tutto il sangue che ho sputato, sono rimasto qui così, con un pugno di mosche in mano».
«Vabbè fradèl, se devi sminuire smettiamo di parlare. Ricorda che sei partito da una web radio universitaria che aveva zero ascoltatori e sei arrivato in FM, hai fatto cose incredibili, in città sei una mini celebrità, conosci miliardi di persone. Arriverà dell’altro. Le cose finiscono e poi ricominciano da un’altra parte. È la mamba mentality” che conta, fidati di tuo fratello».

Il decreto contro i rave e la morte di Vallora: il racconto della settimana
Io con Sebastian.

La festa. La casa che la famiglia di DFA ha al mare non è esattamente a Portovenere, dove si terrà la festa, ma un po’ più su, esattamente a Montemarcello, un borgo che sembra uscito da un acquerello a 266 metri sul livello del mare. Varcata la soglia della palazzina a tre piani color pastello sembra di entrare in una tenda berbera: si cammina su splendidi tappetoni monocromatici, come un patchwork gigante, fatti in Marocco, nellalto Atlante, per la famiglia reale marocchina. Secondo la mamma di DFA questi tappeti sono allo stesso tempo una cosa decorativa ma anche di sostanza. «La base, ciò su cui posi i piedi, è già un piacere. E fanno anche parte di una visione etica dellospitalità», mi ha detto una volta da ragazzo mentre scalzo, in mutande, sbriciolavo un oki di prima mattina in un bicchiere d’acqua dopo una serata particolarmente turbolenta.

Se mi osservaste dall’alto vi accorgereste che indosso un paio di chinos blu scoloriti, una t-shirt bianca e che ho in testa un grosso cappello di paglia, perché nonostante sia quasi novembre ci sono tipo 25 gradi e fa un caldo opprimente. Un paio di settimane fa un’ascoltatrice della radio che mi è rimasta come contatto su Facebook, leggendo uno dei racconti che pubblico su Tag43, mi ha scritto che non sopporta, testualmente, «quando parte il panegirico sulle marche dei vestiti di lusso, gli elenchi delle destinazioni di lusso, etc». Ho notato che questa roba delle marche infastidisce molti, alcuni smettono addirittura di leggere, non capendo che chi scrive, non potendo contare sulle immagini, spesso si serve ampiamente di prodotti e marchi per connotare i personaggi e il loro mondo. Ed è esattamente a questo che sto pensando mentre DFA mi viene incontro, nel giardino della palazzina a tre piani color pastello, con per mano il piccolo Sebastian e indossa un paio di Nike Air Max, dei jeans, quasi sicuramente Levi’s, e una t-shirt nera di Paul Smith, trincerato dietro un paio di occhiali da sole Persol, simili a quelli che una volta indossava Marcello Mastroianni nel film Divorzio all’italiana. «Come va fradèl?», mi chiede, e poi aggiunge, «a cosa stai pensando?». «Niente di che, stavo pensando che la gente me la mena perché utilizzo i nomi delle marche dei vestiti per contestualizzare i racconti che scrivo e sorrido se penso che oggi ho indosso dei calzoni di Gap da 40 euro e una t-shirt di Uniqlo da 12,90, che per me sinceramente sono il massimo del lusso, considerando laspetto notevolmente figo che mi conferiscono». «Cazzo fradél, anche tu ormai ti vesti da povero come me. Un tempo sarebbe stato impensabile», mi dice. «E ti dirò di più», gli rispondo, «pensa che ultimamente sono pazzo di Piombo, che ha una linea mega low cost, però strafiga, un po’ preppy, tipo Ralph Lauren o Tommy per intenderci, con prodotti di qualità che però costano un terzo. Mi sono scocciato di spendere soldi per i vestiti. Apprezzo follemente la sua filosofia iper democratica». «Piombo il top fradél. Lo apprezzo anche io di brutto».

Ho conosciuto Vallora anni fa, grazie a Rupert, a una cena a casa di suo fratello Edgar in Piazza Castello. C’era un sacco di gente interessante a quelle cene, tipo Rosellina Archinto, Antonia Jannone, Gae Aulenti, Vittorio Gregotti, Ferdinando Scianna, Alessandro Riva. Io avevo all’incirca 23, 24 anni al massimo, e ignoravo totalmente chi fosse ognuno di loro

Poi tornai nella mia stanza, mi levai il grosso cappello di paglia, mi infilai una felpa grigia, le Clarck’s e prima di tornare di sotto accarezzai le lenzuola Frette che abbracciavano il letto imponente dove avevo passato la notte. Nel frattempo i primi invitati cominciavano ad arrivare e la palazzina a tre piani color pastello iniziò a vivere di vita propria. Tutto improvvisamente fu pronto per la grande festa. A tavola, in riva al mare, al ristorante Portivene, i discorsi vertevano più o meno tutti sull’ultimo film di un regista danese intitolato Triangle of Sadness, sulle follie di Kanye West, sull’ultimo romanzo su Mussolini di Antonio Scurati, sulla nuovo decreto anti-rave. «Sinceramente avrei dovuto prendere l’ergastolo, se considero tutti i rave a cui ho partecipato», ho dichiarato ad alta voce a un certo punto. «Sei come Bianca Balti», ha risposto Daniel, un vecchio amico mio e di DFA, arrivato direttamente a Portovenere da Milano questa mattina, in compagnia della sua fidanzata Domitilla e del piccolo Giovanni, «ha scritto un post simile su Instagram proprio adesso». «Per chi volesse saperne di più inoltre amici posso consigliare sul tema una lettura illuminante, scritta dal mio amico Pablito El Drito e intitolata Rave in Italy, che racconta gli Anni 90 attraverso le voci dei protagonisti».

https://www.instagram.com/p/CkfGopeLyDR/

Il resto del pranzo passò nel più assoluto stordimento, causato dal vino a profusione che io Daniel e DFA continuavamo a versarci nei grossi bicchieri di cristallo senza sosta. I bambini ammisero di essersi divertiti in spiaggia e intrattennero con Promethea, nipote dell’architetto Bofill, nonché madre di Sebastian, un lungo dibattito su Luca della Pixar, lungometraggio animato che racconta la storia di un’amicizia speciale fra due mostri marini e una bambina, ambientato proprio da queste parti, a Vernazza. Seduti al grande tavolo da pranzo oltre a noi (me, Daniel, Domitilla, DFA e Promethea), ai genitori di DFA e ai due marmocchi, c’erano alcune mogli di un paio di cervelli, altri pezzi grossi della cultura italiana e un professore reso celebre da dei video divulgativi a tema storico che lo avevano reso un’autentica star. Ebbi un sussulto solo nel momento in cui al tavolo tutti si misero a parlare di Marco Vallora, scomparso settimana scorsa alletà di 69 anni. Vallora, noto studioso, critico cinematografico e storico dellarte è morto in treno, il luogo dove probabilmente in vita ha trascorso la maggior parte del suo tempo.

Ho conosciuto Vallora anni fa, grazie a Rupert, a una cena a casa di suo fratello Edgar in Piazza Castello. C’era un sacco di gente interessante a quelle cene, tipo Rosellina Archinto, Antonia Jannone, Gae Aulenti, Vittorio Gregotti, Ferdinando Scianna, Alessandro Riva. Un conciliabolo di giganti che si ritrovava spesso il giovedì sera a casa di Edgar, in un periodo in cui io avevo all’incirca 23, 24 anni al massimo, e ignoravo totalmente chi fosse ognuno di loro. Io da Edgar andavo principalmente per fumare, perché Rupert spesso aveva del caramello strepitoso e ci piaceva, alla fine della cena, rollarci una serie di spini in quella terrazza pazzesca davanti al Castello Sforzesco ascoltando gli altri che parlavano di arte, design e architettura. Il mio aggancio con quel mondo era Rupert, una persona che poteva indifferentemente stare in mezzo a intellettuali di quel calibro e qualche ora più tardi muoversi con disinvoltura nei vicoli bui formati dai sottoscala delle “case” in viale Sarca a cercare di acquistare della droga pesante. Rupert visse certamente gli anni delleffimero, della moda, del glamour, delle piste di cocaina, degli amori promiscui e del trionfo consumistico, ma la sua sensibilità era rivolta anche indietro e allessenziale, tanto che oggi vive con quasi niente in un casolare nelle campagne del Pavese con un atteggiamento e una tranquillità assolutamente invidiabili. Ricordo che si paragonava spesso a Julien Sorel, il protagonista del Rosso e il nero di Stendhal. Con Rupert non ci vediamo da anni, è uno degli amici che più mi manca. E sentire i discorsi su Vallora oggi, a questo tavolo di intellettuali, in questo ristorante in riva al mare a Portovenere, me lo ha fatto ricordare.