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Franceschini, Giorgetti, Letta: la crisi affonda i numeri due

Franceschini costretto a rottamare il campo largo a cui aveva lavorato. Gianni Letta spiazzato dal cerchio magico del Cav. Giorgetti deve raccogliere i cocci lasciati da Salvini. Così la caduta del governo Draghi ha relegato i pontieri ai margini.

2 Agosto 2022 09:092 Marzo 2023 13:33 Andrea Muratore
Franceschini, Giorgetti, Letta: la crisi affonda i numeri due

C’è una costante, trasversale ai partiti politici, nella crisi che ha condotto alla fine del governo Draghi. Proprio per essere stata rapida come un «colpo di pistola di Sarajevo» (Enrico Letta dixit), ha fatto emergere la figura dei segretari su quella dei partiti. E ha messo all’angolo i tessitori più arditi. I numeri due, i pontieri, i maestri del retrobottega, dell’arte della gestione delle crisi. Dario Franceschini del Partito Democratico, Gianni Letta, gran consigliere di Silvio Berlusconi e Giancarlo Giorgetti, vicesegretario della Lega non hanno praticamente toccato palla. E, in maniera crescente, si sono visti ridimensionati. La caduta dell’esecutivo insomma ha impattato, in un modo o nell’altro, anche su di loro.

Franceschini, il meno draghiano dei dem contro il campo largo

Il ministro della Cultura è stato, in molti casi, l’uomo della mediazione giusta al momento giusto. Ma nel governo Draghi si è trovato, alla lunga, incartato. L’ex segretario dem ha, il 21 luglio scorso, recitato il de profundis dell’alleanza col M5s a cui aveva creduto come sponda per un campo progressista di governo che gli garantisse le chance di competere per il suo sogno recondito: il Quirinale. Nel 2018, sperando di consolidare l’accordo post-elezioni coi pentastellati, aveva aperto alla trattativa poi interrotta da Matteo Renzi; nel 2019, contribuendo a formalizzarla con la nascita del governo Conte II, era stato portabandiera della nuova alleanza progressista.

PD - Franceschini, Giorgetti, Letta: la crisi affonda i "numeri due"
Dario Franceschini (Getty)

Franceschini è il meno draghiano dei dem, racconta chi gli è più vicino, e dopo aver fatto per mesi buon viso a cattivo gioco col premier si è trovato a dettare la linea della fermezza verso i grillini. Il suo tentativo disperato di mediazione il 20 luglio scorso ha avuto il sapore amaro della nostalgia per i tempi andati: il retroscena del confronto con Giuseppe Conte e Roberto Speranza dopo la prospettiva di un distacco di Lega e Forza Italia dalla maggioranza parla chiaro. Franceschini avrebbe prospettato all’ex premier un Conte-ter a guida Draghi per buttare fuori il Carroccio sentendosi rispondere picche. Troppo ampio il solco segnato tra Conte e Letta. Troppo duri i toni del distacco. Uno smacco per un uomo che negli anni ha fatto e disfatto, puntando al ruolo di pontiere e federatore. Dal convinto sostegno al governo di Mario Monti e alla conseguente austerità economica alla trattativa col Popolo delle Libertà per portare Enrico Letta al governo nel 2013, Franceschini ha sempre mediato. Il segretario questa volta però ha tracciato un solco inequivocabile. Imponendo al ministro ferrarese di dialogare con uno dei suoi principali interlocutori: suo zio.

Gianni Letta, l’ex bussola del Cav

Lo descrivono amareggiato e ben poco soddisfatto della situazione attuale. A essere fonte di amarezza, per l’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, è stata l’incapacità di offrire una coordinata di navigazione a Silvio Berlusconi. La sua assenza al tavolo del 27 luglio con cui il centrodestra ha spartito i collegi uninominali,  lo testimonia.

Roma FI - Franceschini, Giorgetti, Letta: la crisi affonda i "numeri due"
Gianni Letta (Getty)

Gianni Letta è uomo del potere che dura e che frena. Non ha mai ragionato in termini di cerchi magici o privilegi, ma di autorità conquistata sul campo. La caduta del governo Draghi, per la cui nascita e tenuta si è più volte speso in prima persona arrivando a dissuadere il Cavaliere dal tentare la corsa poi interrotta al Colle, è percepita come la più amara delle sconfitte. Letta ha, assieme a B, vinto e perso innumerevoli battaglie. Godendo sempre del rispetto degli avversari, spesso superiore a quello degli alleati. Figura trasversale, è sempre stato impossibile spiazzarlo. Fino al 20 luglio scorso, quando la sua felpata mediazione è finita nel vicolo cieco delle chiamate non passate a Berlusconi da Licia Ronzulli e Marta Fascina le nuove “custodi”.

Giorgetti e il dilemma sulla Lega che verrà

Ma chi ha maggiormente incassato il colpo della crisi è Giancarlo Giorgetti. Il cui silenzio di queste settimane è emblematico: il ministro dello Sviluppo Economico è stato per mesi presentato come l’alter ego di Matteo Salvini, il volto responsabile della Lega, portavoce dei mitologici imprenditori del Nord che chiedono stabilità, lavoro e draghismo. È stato addirittura dipinto come colui che avrebbe traghettato il Carroccio verso i lidi del popolarismo tedesco e del mondo anglosassone. «La realtà è che ora è sconfitto», si ragiona in ambienti leghisti, «e lo è su tutti i fronti in cui era visto come l’anti-Salvini». La struttura verticistica del partito lascia al segretario pieni poteri sull’indirizzo politico, e il vice Giorgetti nulla ha potuto di fronte alla svolta pro-elezioni di Salvini. La difformità di pensiero tra la Lega in parlamento e i governatori del Nord è emersa nella sua evidenza dopo la caduta di Draghi. E ora Giorgetti vede le sue credenziali scemare anche agli occhi degli ambienti statunitensi di cui era il tramite per la Lega.

Lega - Franceschini, Giorgetti, Letta: la crisi affonda i "numeri due"
Giancarlo Giorgetti (Getty)

L’assenza di Giorgetti alle celebrazioni all’Ambasciata Usa per il 4 luglio è sembrata a molti un campanello d’allarme indicativo del calo dell’ascendente dello stratega leghista sul capo partito. Il tentativo poi di Salvini di risolvere il dissidio Fontana-Moratti proponendo Giorgetti, informalmente e goffamente, come candidato presidente della Regione Lombardia è stato vissuto dal diretto interessato come un tentativo di allontanarlo dal gioco romano. Salvini ha concertato coi capigruppo Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo la scelta di chiudere con un governo di cui Giorgetti era uno dei ministri di punta, e questo la dice lunga sui mutati equilibri interni al Carroccio. Questi sono, del resto, i rischi dei  professionisti dell’anticamera: essere trascinati nell’agone con armi impari proprio perché è la mediazione e non il confronto diretto a permettere di avere la meglio nelle battaglie. Scontri sempre più difficili in una politica ove scarseggiano i temi e abbondano invece i toni muscolari e la ribalta mediatica.

 

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