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Le accuse di Druet a Cattelan, Parigi e Ofelia la salvatrice: il racconto della settimana

Sono a Parigi con Ofelia per cercare di intervistare lo scultore Daniel Druet dopo le accuse lanciate a Maurizio Cattelan. Seduto ai tavolini del St Regis, penso a quanto questa città sia legata alla mia famiglia e a mio padre che qui fu latitante. Il racconto della settimana.

7 Maggio 2022 09:54 Andrea Frateff-Gianni
Le accuse di Druet a Cattelan, Parigi e Ofelia la salvatrice: il racconto della settimana

Notte in Algeria di Piero Umiliani. Crepuscule with Nellie, tratto dalla colonna sonora di Les liaisons dangereuses del 1960, di Thelonious Monk. Nuit sur les Champ-Èlysèes, tratto dalla colonna sonora di Ascenseur pour l’échefaud del 1957, di Miles Davis. Mènlimontant, tratto dal disco Jazz Sur Seine, di Barney Wilen. E per finire, in chiusura, per sparigliare, Sir Baudelaire, il pezzo che apre l’ultimo album di Tyler The Creator, intitolato Call me if you get lost. Con l’iPad sulle ginocchia scelgo queste tracce, da passare in radio per la trasmissione di stasera mentre, seduto ai tavolini del St. Regis, sull’Ile de St. Louis, faccio colazione con Ofelia, trincerata dietro un paio di occhiali da sole grossi come due teleschermi, che mi ricordano quelli che ho visto in una foto vintage su Instagram l’altro giorno, addosso a Jackie Kennedy, paparazzata, mentre passeggia all’alba, scalza, per le vie di Capri, con dietro un abbronzatissimo Valentino.

Portofino a parte, ultimamente con Ofelia per passare un weekend o scegliamo Venezia o veniamo qui a Parigi. Alloggiamo nel solito appartamento al 17 di quai d’Anjou, dove una volta sorgeva il celebre Club des Hachichins, e fondamentalmente non facciamo nulla, a parte bere champagne e fare infinite passeggiate lungo la Senna. Ofelia è tutto. Penso questo mentre la guardo e torno indietro nel tempo, domandandomi dove sarei ora se non l’avessi incontrata e non ci fossimo messi insieme all’incirca 12 anni fa, mese più mese meno. Le donne danno il meglio di sé nella cosiddetta età della febbre, che va dai 37 anni ai 41. A rivelarlo una ricerca scientifica secondo cui sarebbe questo il periodo migliore della loro esistenza, quello in cui appaiono più belle e sicure di sé. Lo studio è stato realizzato dalla Boston University School of Medicine e pubblicato sul Telegraph qualche tempo fa. Trentasette anni è esattamente l’età che aveva Ofelia quando ci siamo messi assieme, credendo entrambi in una storia improbabile sulla quale nessuno avrebbe scommesso nemmeno uno scellino. «Ofelia ti ha civilizzato», mi ha detto una volta Fiore, mentre lavoravamo gomito a gomito dietro il bancone della Belle Aurore, e in effetti non posso dargli per niente torto, perché all’epoca ero un trentenne allo sbando, tossico e disadattato, incapace anche solo di pensare di poter avere un rapporto serio e duraturo con qualcuno, fuori di testa com’ero.

Le accuse di Druet a Cattelan, Parigi e Ofelia la salvatrice: il racconto della settimana
Il St Regis, sull’Ile de St. Louis.

Ofelia si stava separando da suo marito, una celebrità del writing e della controcultura underground milanese e io avevo già da qualche mese troncato definitivamente la tormentatissima storia con Allegra, che nel frattempo si era fidanzata ufficialmente (con tanto di anello da 40 carati al dito) con il figlio del “re dei panettoni”. Dopo la morte di quella ragazza per overdose poi avevo deciso di abbandonare lo Squat Konkordia e mi ero trasferito in affitto in un lussuoso monolocale in via Amedeo d’Aosta al numero 8, curiosamente nello stesso palazzo dove avevo abitato con i miei dal giorno in cui ero nato fino alla metà del 1990. Andammo a vivere assieme quasi immediatamente, il resto è storia regaZ, una storia che continua tuttora mentre, seduti uno di fronte all’altra ai tavolini del St. Regis, sull’Ile de St. Louis, ordiniamo al cameriere un secondo giro di caffè in questa mattinata parigina di stampo semi-primaverile. In realtà, weekend romantico a parte, sono qui a Parigi per cercare di intervistare lo scultore Daniel Druet, che ha citato in giudizio con tanto di richiesta di risarcimento di svariati milioni di euro il ragazzaccio dell’arte contemporanea italiana Maurizio Cattelan, insieme al suo gallerista parigino Emmanuel Perrotin e alla Monnaie de Paris (che nel 2016 ospitò la mostra Not Afraid of Love), lamentando il fatto di non essere mai stato citato in nessun catalogo e in nessuna mostra, pur essendo lui l’autore materiale di molte opere dell’artista italiano. Inutile dire che la sentenza del processo potrebbe provocare un terremoto nel mondo dell’arte contemporanea, dove il valore attribuito alle opere non risiede certo nella perfezione tecnica e nell’estetica ma nel concetto che l’artista vuole comunicare.

Papà conosceva bene il francese grazie a un lungo periodo trascorso tra le aule e i corridoi della Sorbona e scelse per la sua latitanza Parigi anche per i rapporti d’affari che all’epoca intratteneva con un personaggio controverso, bocconiano e latitante come lui: Ferdinando Mach di Palmstein

Un sacco di concetti e belle parole di cui francamente me ne sbatto abbastanza i coglioni, perché io di arte non ci capisco un bel niente, e l’unica connessione che ho con questa storia forse è quella che Maurizio Cattelan abita di fronte a casa mia a Milano e che anni fa con Alb, il mio socio radiofonico, siamo stati esposti nella sua galleria d’arte, Le Dictateur, e abbiamo fatto una trasmissione live con indosso le maschere di Berlusconi e D’Alema. Mi sono proposto in radio di venire qui a trasmettere questa settimana un po’ perché «venire a Parigi è sempre una buona idea», come ha detto qualcuno una volta, e un po’ perché ho sempre avuto con questa città un rapporto particolare. Al liceo leggevo Rimbaud e Baudelaire mosso da qualcosa di teutonico e soprannaturale, rubavo alla Feltrinelli di corso Buenos Aires guide su Parigi, studiavo meticolosamente gli arondissement  e ancora prima, alle medie, nel breve periodo in cui ero rinchiuso nelle prestigioso collegio Le Rosey a Ginevra, prima di venire cacciato, fantasticavo su che vita a Parigi conducesse in quel periodo mio padre, latitante con una suite all’Hotel Ritz di Place Vendôme.

Papà conosceva bene il francese grazie a un lungo periodo trascorso in gioventù tra le aule e i corridoi della Sorbona e scelse per la sua latitanza la Capitale francese oltre che per questo motivo anche per i rapporti d’affari che all’epoca intratteneva con un personaggio a dir poco controverso, bocconiano e latitante come lui, di nome Ferdinando Mach di Palmstein. Il più bello, il più ricco e sicuramente il più furbo dei Craxy’s boys, Ferdinando Mach di Palmstein era un signore di origine svizzera che si trasferì a Milano dopo la laurea in Bocconi. Divenne immediatamente amico di Craxi e dell’architetto Silvano Larini. Si iscrisse al Psi giovanissimo e iniziò un’assidua frequentazione della stessa sezione, la Monforte in viale Argonne, di Carlo Martelli. Con questi collegamenti, il suo cristallino talento per le più spericolate operazioni finanziarie cominciò presto a rifulgere e a essere valorizzato. Il suo nome salì alla ribalta delle cronache per la prima volta all’inizio del 1984 quando venne coinvolto in un’inchiesta su armi e droga aperta dalla Procura di Trento e soprattutto venne notato per le estati trascorse nella villa del leader socialista in Tunisia ad Hammamet. Elegantissimo, in grado di parlare cinque lingue, sempre abbronzato, Mach era di casa da noi in Via Amedeo d’Aosta e infatti fu la prima persona che mio padre cercò per ricevere aiuti a Parigi appena lasciò l’Italia.

Le accuse di Druet a Cattelan, Parigi e Ofelia la salvatrice: il racconto della settimana
Il Nike Lab P75.

I misteri di Parigi hanno sempre accompagnato la storia di Mani pulite e le leggende narrano che nei giorni dell’arresto di Mach, scovato nella casa parigina della bella attrice italiana Domiziana Giordano in Boulevard Saint-Germain dopo un anno e mezzo di ricerche, il pool di Milano si trovò a dover fare i conti con un altro rompicapo transalpino. Durante la caccia a Maurizio Raggio, altro amico di famiglia, venne recuperata una lista di numeri telefonici, tale da permettere la ricostruzione della rete preparata in vista della latitanza. Dopo essersi allontanato dalla villa di Portofino dove viveva con la contessa Vacca Agusta, Raggio, considerato il custode dell’ultimo tesoro di Bettino Craxi, raggiunse Ginevra nell’ottobre del ’94 e dalla suite dell’Hotel Richemond contattò diversi amici tra cui una serie di personaggi presenti in Francia. Sui referenti francesi è sempre rimasto il segreto, ma si sa che Raggio contattava sempre un cellulare e un’utenza fissa di Parigi inseriti in una cosiddetta “lista rossa”, un elenco ultrariservato, che si dice comprendesse personalità di rilievo per la sicurezza nazionale. Con mio fratello Stefano all’epoca si scherzava sul fatto che “Monsieur X” potesse essere nostro padre, e la cosa spiegherebbe per esempio il motivo per il quale non si trova quasi nessuna notizia sulla nostra famiglia in Rete. Certo però fu il fatto che, in seguito al breve periodo che papà trascorse a Regina Coeli dopo aver sperimentato come ogni boss che si rispetti un arresto in piena notte nel suo appartamento in Piazza Navona a Roma, la sua fuga Oltralpe fu organizzata a bordo di un bimotore della ricca branca francese di Saman, la comunità creata da Mauro Rostagno. Ad amministrare la sezione parigina della holding era infatti Giorgio Pietrostefani, ex di Lotta Continua coinvolto nell’omicidio Calabresi, personaggio vicino a tutta la galassia di esuli appartenenti alla sinistra extraparlamentare di quegli anni a cui apparteneva ovviamente anche mio zio Paolo. Tutti questi intrecci mi hanno sempre immensamente affascinato  e riguardando indietro, anche oggi, ci sono parecchi tasselli che non tornano, come se al mosaico mancassero sempre una serie di tessere per completarlo. Mosaico che sicuramente non completerò oggi qui, dalla mia isola al centro di Parigi, perché ho cose più importanti da fare, tipo andare a comperare al Nike Lab P75 del Marais in 12 Rue Des Hospitalieres St.Gervais, un paio di scarpe marchiate Jun Takahashi, che con la sua leggendaria crew di runner ribelli GIRA (Gyakusou International Running Association), ha creato un altro modello da running indispensabile che non può assolutamente mancare nel mio guardaroba.

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