La Digos di Napoli, su disposizione della Procura partenopea, sta effettuando una serie di perquisizioni nelle abitazioni e negli uffici romani di Alessandro Profumo (nella veste di amministratore delegato di Leonardo), dell’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema, di Giuseppe Giordo, ex direttore del settore Navi di Fincantieri e di Gherardo Gardo, nella veste di contabile di D’Alema. Il decreto di perquisizione nei confronti dei quattro indagati è stato emesso nell’ambito delle indagini dell’ufficio inquirente partenopeo sulla compravendita di navi e aerei alla Colombia.

L’ipotesi della Procura di Napoli
Come riporta l’edizione online del Corriere della Sera, Profumo, D’Alema, Giordo e Gardo si sarebbero, a vario titolo, adoperati quali «promotori dell’iniziativa economica commerciale di vendita al governo della Colombia di prodotti di aziende italiane a partecipazione pubblica – Leonardo, in particolare aerei M 346, e Fincantieri, in particolare Corvette e piccoli sommergibili e allestimento di cantieri navali – al fine di ottenere da parte delle autorità colombiane la conclusione degli accordi formali e definitivi aventi ad oggetto le descritte forniture ed il cui complessivo valore economico ammontava a oltre 4 miliardi di euro».

Il ruolo dei broker Caruso e Amato
Secondo l’ipotesi della Procura partenopea, D’Alema si sarebbe adoperato per mettere in contatto con Leonardo e Fincantieri i broker pugliesi Emanuele Caruso e Francesco Amato (già precedentemente iscritti nel registro degli indagati): i due, riporta Corriere.it, «operavano quali consulenti per la cooperazione internazionale del ministero degli Esteri della Colombia tramite Giancarlo Mazzotta e riuscivano ad avere contatti con Massimo D’Alema il quale per il curriculum di incarichi anche di rilievo internazionale rivestiti nel tempo si poneva quale mediatore informale nei rapporti con i vertici delle società italiane ossia Alessandro Profumo quale amministratore delegato di Leonardo e Giuseppe Giordo quale direttore generale della divisione navi militari di Fincantieri». Per ottenere ciò, «offrivano e promettevano ad altre persone il corrispettivo illecito di 40 milioni di euro corrispondenti al 50 per cento della complessiva provvigione di 80 milioni di euro».