L’altro giorno ho fatto il conto: in 12 anni di trasmissioni che comprendono quasi 600 puntate avrò più o meno passato in radio 6 mila pezzi, forse 6.500. Questa settimana, chissà perché, per la festa di compleanno della mia amica Glenda, che mi ha chiamato per mettere la musica, sono andato in totale paranoia. DFA mi ha detto: «Dai fratello, ce la fai tranzo. Basta che ti fermi un attimo e scrivi giù le prime due canzoni, poi le altre vengono da sé. L’ansia invece sembra proprio da prestazione sessuale, perché il problema è che alla fine a Guenda, o come cazzo si chiama, tu le vuoi schizzare sulle tette. E la cosa ti agita. Ma questa è una mia opinione. Il tuo psicologo invece direbbe che probabilmente è perché lei viene dal mondo della tua infanzia e quindi c’è una sorta di aspettativa, come quando i miei venivano a vedere la partita di basket e io avevo un’ansia pazzesca e giocavo male. Se non venivano invece sembravo Larry Bird». Fatto sta che adesso sono qui, sul rooftop dell’Ostello Bello vicino alla stazione Centrale e devo solo tenere la mente sgombra e concentrarmi su questa cazzo di festa di compleanno. A cominciare dallo stato della consolle.
Mentre lancio il mozzicone ancora acceso in mezzo alla strada penso a che figata di pezzo sia Baba O’Riley. Mi viene in mente un pomeriggio in collegio in Svizzera, in stanza con DFA da ragazzini, mentre infilavamo il cd di Tommy nel suo strepitoso stereo e lo ascoltavamo avidamente sperando di sentir partire prima o poi Baba O’Riley, che era il nostro pezzo preferito di cui però non sapevamo il titolo, per poi accorgerci, come due coglioni, che non c’era in Tommy, rimanendo entrambi totalmente delusi
Regola numero uno: verificare tutti i cavi che collegano i cdj1000 Pioneer ai diffusori Marshall. Non capisco un cazzo di queste cose perché per anni ho avuto un tecnico a disposizione per le esterne in radio e al massimo, quando non c’era, di queste faccende si è sempre occupato il mio socio Alb. Ma il tecnico quota sera non c’è. Alb nemmeno, quindi i cavi da dove devono uscire? E soprattutto: entrano dove devono entrare? Chissà. Per il resto ho passato tutta la serata di ieri a preparare playlist. Un mix tra: grandi classici della musica black accoppiati a del funk napoletano o a della musica salentina, un po’ di altra roba stilosa, alla Pulp Fiction per intenderci, più del jazz sudafricano, del forrò e della cumbia, a cui ho alternato dei pezzi di new wave e anche qualche brano, tra i più famosi, di roba disco music Anni 70. C’è ovviamente anche dell’hip-hop, perché senza quello non esco nemmeno di casa, e altra roba elettronica assolutamente ragguardevole. In quale ordine gestirò tutto ciò non è chiaro, quello che so con precisione però è che inizierò il mio set con Eleanor Rigby, Beatles, Instrumental, ovverosia la versione con i soli violini. Detto questo torno sulla questione cavi. Miracolosamente sembra che funzioni tutto. Il preascolto? Il volume in cuffia? Lo verifico dopo, col ritorno della spia. Alzo gli occhi al cielo, mi accendo una sigaretta e lancio uno sguardo ai ragazzi dietro al bancone del bar che si stanno preparando per la battaglia come un equipaggio di una nave pirata. Non li invidio nemmeno per un secondo. Sono appena le 7 e infilo la chiavetta nello spazio in alto a sinistra del cdj, scelgo Baba O’Riley degli Who da lasciare in sottofondo e mentre suona ne approfitto per sentire il volume in cuffia. Lo alzo appena un filo. Perfetto. Abbasso leggermente quello della spia. Poi abbandono la consolle, passo davanti al banco del bar scambiandomi un cenno di saluto con una delle bariste, una tipa da sballo con cui mi sono fermato a chiacchierare prima che si chiama Sofia, neanche a farlo apposta, ed esco dal locale a prendere una boccata d’aria. Accendo una sigaretta, mando un whatsapp con un paio di cuori a Ofelia e aspetto che arrivi Glenda con i primi invitati per iniziare a fare sul serio. Finisco la sigaretta e mentre lancio il mozzicone ancora acceso in mezzo alla strada penso a che figata di pezzo sia Baba O’Riley. Mi viene in mente un pomeriggio in collegio in Svizzera, in stanza con DFA da ragazzini, mentre infilavamo il cd di Tommy nel suo strepitoso stereo che si era portato dietro da Milano e lo ascoltavamo avidamente sperando di sentir partire prima o poi Baba O’Riley, che era il nostro pezzo preferito di cui però non sapevamo il titolo, per poi accorgerci, come due coglioni, che non c’era in Tommy, rimanendo entrambi totalmente delusi.
Tre ore più tardi sono nel pieno della festa e sono completamente sciolto. Che intro pazzesca che gli ho fatto a questi stronzi, che a un certo punto si sono messi a ballare tutti, compresa Sofia dietro al banco del bar. Di colpo ho di nuovo 25 anni e sono in consolle al Cafè Atlantique e vedo la gente tutta sudata con le mani alzate, così metto in sequenza Around the World e Da Funk dei Daft Punk e faccio un loop pazzesco del pezzo Giorgio by Moroder quando dice: «My name is Giovanni Giorgio, but everybody calls me Giorgio», lasciandolo per quasi un minuto prima di farlo partire. Poi il pezzo parte ed è il delirio quando una ragazza bionda amica di Glenda sale su un tavolo, si toglie la maglietta, rimane seminuda con due croci di nastro adesivo nero sui capezzoli e comincia a ballare, muovendo le mani come se stesse nuotando a rana. «Sei un grande, Andre», mi fa Glenda all’orecchio, avvicinandosi alla consolle e tirandosi fuori un paio di free drink dalle tette, «cazzo, hai veramente spaccato!», e allora le batto un cinque e le sorrido, mentre faccio segno a Sofia di farmi portare da bere da qualcuno. Ormai il gioco è fatto. Continuo con roba semplice ma sicura tipo Windowlicker di Aphex Twin o Fatboy Slim fucking in a heaven o Hey Boy, Hey Girl dei Chemical Brothers o Who said dei Planet Funk o Situation degli Yazoo, che queste merde andavano ancora all’asilo o alle elementari. Poi l’epifania: ci vogliono ancora i Daft Punk, Get Lucky, un pezzo vecchio di 10 anni ma sempre devastante. Silenzio. La pista improvvisata ondeggia. Poi urla. Mi guardano tutti. Premo il tasto PLAY. E sono ululati, braccia levate al cielo, fischi di approvazione e l’ululato della musica è come quello di una belva feroce.
Get Lucky, nata dal genio di Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter, fu il singolo che fece da preludio all’album Random Access Memories, disco pazzesco dei Daft Punk, che proprio in questi giorni compie 10 anni di vita. Prodotta da Nile Rodgers (fondatore degli Chic e mente dietro al successo di dischi di David Bowie, Duran Duran, Madonna e Mick Jagger, solo per citarne alcuni), fu un’autentica bomba atomica che fece impazzire i palinsesti delle radio, delle tv e i clic sul web. Un pezzo che, anche grazie alla presenza di Pharrel, risultò essere fin dai primi ascolti irresistibile balzando in testa alle classifiche di tutto il mondo, vincendo caterve di premi e battendo ogni record di streaming su Spotify, sia in Inghilterra che negli Stati Uniti. All’epoca, quando uscì nell’aprile del 2013, la nostra trasmissione era la più ascoltata tra quelle delle radio universitarie di tutta Italia e Get Lucky la mettevamo tutte le settimane anche due volte nella stessa puntata. In particolare il nostro amico Marco Rigamonti, uno dei più noti dj del panorama milanese, aveva fatto un mash-up sovrapponendola a Last night a deejay saved my life degli Indeep, che avevamo solo noi e che fu immediatamente un successo strepitoso. Iniziava in quei mesi il periodo dell’idea della radio itinerante: cominciammo a trasmettere in gallerie d’arte, negozi di dischi, ostelli e birrifici. Tra la primavera e l’estate del 2013, quando uscì Random Access Memories, con Alb e il dj Lillo Carillo, che all’epoca ci faceva da tecnico, ci sentivamo parte di qualcosa di unico e rivoluzionario, come se stessimo creando una versione 2.0 delle radio pirata degli Anni 70 sulle barche che trasmettevano in acque extraterritoriali per sfuggire ai divieti amministrativi. Ci sentivamo gli eredi spirituali dei disc-jockey milanesi degli Anni 80 che creavano le prime radio private negli appartamenti tipo Radio Milano International. Volevamo fare qualcosa di nuovo, di mai visto prima e il disco nuovo dei Daft Punk si sposava splendidamente con la nostra filosofia. Get Lucky, in particolare, divenne il nostro manifesto: un gioiello che sembrava venuto fuori dal funk degli Anni 70 ma che suonava tremendamente moderno. Esattamente come lo spirito del nostro progetto. Con Ofelia poi stavamo assieme da quasi due anni. Non avevo mai avuto per tanto tempo la stessa ragazza. Eravamo inseparabili. Ora so che nessuno tra i miei amici e le persone che ci conoscevano avrebbero scommesso uno scellino sulla nostra storia. Ora so che non sono mai stato così felice come lo fui tra la primavera e l’estate del 2013.

Ci sono gruppi e colonne sonore che accompagnano meglio di altri la vita di tutti noi. Dovessi fare una classifica i Daft Punk sarebbero sicuramente nella mia personale top five. Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter si conobbero all’inizio degli Anni 90 in una delle scuole più prestigiose di Parigi, il Lycée Carnot. Come si usava all’epoca formarono inizialmente, insieme al futuro chitarrista dei Phoenix, Laurent Brancowitz, una band indie rock che chiamarono Darlin, ispirandosi a una canzone omonima dei Beach Boys. Ma il 93 era anche il periodo dei nightclub e dei rave underground. Decisero così di cambiare genere e scelsero di formare una nuova band e di chiamarsi Daft Punk, dopo che un critico musicale liquidò su una rivista una canzone dei Darlin’ definendola «daft punky thrash». La prima volta che li sentii nominare fu un pomeriggio del 97, tornato casa da scuola, quando vidi su MTV passare il video di Da Funk, un pezzo dal groove pazzesco che integrava elementi funk a una house particolarmente ricercata. Rimasi rapito davanti al teleschermo di camera mia osservando quel video che aveva come protagonista un cane che conduce una vita da umano, che camminava tutto spaccato, appoggiandosi con delle stampelle, con uno stereo sottobraccio, in una grande città. Scoprii in seguito che quel video assurdo venne girato dal regista Spike Jonze, che all’epoca non sapevo nemmeno chi fosse. Il me 17enne, che già frequentava assiduamente le discoteche sanbabiline del centro e arrivava da anni di militanza pomeridiana ascoltando il Deejay Time di Albertino, andò letteralmente fuori di testa guardando quel video, che fu solamente il prologo dell’arrivo di un altro pezzo che si rivelò essere un autentico terremoto: Around the World. Un brano che venne suonato quasi tutti i club del pianeta, contraddistinto da uno shock acustico ipnotico e affascinante che resta nel cervello come in un loop infinito. Le due tracce furono i singoli che lanciarono Homework, ancora oggi considerato dalla critica uno dei più influenti album dance mai realizzati nella storia della musica.
Per un attimo guardo Geraldine senza dire niente, poi distolgo lo sguardo e in consolle il dj, che ha un paio di anni più di me e si chiama Marco Rigamonti anche se lo chiamano tutti Marchino, mette Around the World e iniziamo tutti a ballare
Un sabato sera del 1997. È sabato sera e siamo tutti a casa di Dodo. Non c’è molto da fare e stiamo fumando tutti hashish e bevendo gin tonic artigianali aspettando di uscire a bere qualcosa e poi andare a ballare al Ragno d’Oro in Porta Romana dove tutti entreremo gratis per merito mio perché sono uno dei pr più forti dei sabati pomeriggi in città. Io continuo a fissare una foto della madre di Dodo appesa sopra il bar del soggiorno dal soffitto altissimo. Stasera non succede granché a parte il fatto che mi sono portato dietro Geraldine, che non esce mai con noi, che non si droga e che non è affatto a suo agio. Indossa un vestito di raso sopra il ginocchio, calze nere spesse e un paio di scarpe col tacco. A un certo punto decidiamo di uscire. Andiamo prima al Coquetel di Piazza Vetra a bere un paio di drink, poi arriviamo al locale in taxi. Davanti al Ragno d’Oro c’è una coda infernale che saltiamo in un batter d’occhio. Quando siamo dentro il volume della musica è altissimo e c’è un sacco di gente che balla e l’intera sala puzza di birra e sudore e benzina. Geraldine non si stacca mai da me, io sono molto fiero di averla di fianco ma sono anche completamente fatto. Dodo di fianco a noi totalmente su di giri limona con Elenoire, la sua fidanzata francese, sembrano tutti e due molto felici. Per un attimo guardo Geraldine senza dire niente, poi distolgo lo sguardo e in consolle il dj, che ha un paio di anni più di me e si chiama Marco Rigamonti anche se lo chiamano tutti Marchino, mette Around the World e iniziamo tutti a ballare.
Il ricordo di quella serata si dissolve in un pomeriggio di maggio del 2023 mentre una telecamera mi riprende mentre esco da un negozio di dischi di Corso di Porta Ticinese con una felpa rossa con il cappuccio tirato su mentre sottobraccio ho due vinili: il primo si intitola Homework, il secondo è un’edizione speciale uscita oggi di Random Access Memories con una serie di bonus tracks inedite che celebrano il decennale dell’album. Né Geraldine né la trasmissione radiofonica esistono più nel mio quotidiano, passati, come quel sabato sera del 1997 e come il periodo magico tra la primavera e l’estate del 2013. Perfino i Daft Punk si sono sciolti. Tutto ciò però non mi impedirà di tornare a casa tra poco, aprire con cura entrambi i vinili e suonarli uno dopo l’altro al massimo volume, sparandoli a tremila dalle casse del mio salotto, urlando a squarciagola, come in quel pezzo degli LCD Sound System: «Well, Daft Punk is playing at my house, my house!!!».